La r-esistenza
della voce e del silenzio

Fate silenzio! È uno dei primi ordini che i bambini ricevono quando cominciano la scuola. La voce dell’alunno in classe può manifestarsi solo quando è interrogato, in quel caso invece il silenzio costa caro, ed è punito col voto peggiore. Il silenzio e la voce sono disciplinati dalla “buona condotta”, diventano una pratica di obbedienza e autocontrollo. Il valore emotivo ed espressivo del silenzio e della voce, che nel bambino tendono spontaneamente all’anarchia, sono incanalati all’interno di un sistema di regole che è alla base del mondo adulto, un mondo minuziosamente codificato, organizzato, programmato. Da quel momento la voce si inscrive e si delimita nella parola, a cui sfugge solo la pratica del canto, e il silenzio, che nasce come spazio aperto e infinito, comincia a far paura, spesso è stigmatizzato come reticenza, afasia, timidezza, introversione, vuoto. Un vuoto che intimorisce e destabilizza (l’horror vacui di cui parlavano i latini), un vuoto che quindi deve essere riempito costantemente, da parole, da suoni, da rumori. Così come l’urbanizzazione moderna ha abolito il buio naturale della notte con l’illuminazione artificiale permanente, le società cosiddette “avanzate” hanno abolito il silenzio. Solo i morti tacciono, e quindi un paradossale sillogismo ci suggerisce che il silenzio si accompagna alla morte, non a caso si usa ritualmente per commemorare le persone scomparse, il silenzio per i mortali diventa allora sinonimo di perdita, costrizione, chiusura, imbarazzo, difficoltà e difetto di comunicazione. Eppure le emozioni più forti, di dolore o di gioia, sono inesprimibili, non trovano nella parola un’espressione adeguata, hanno bisogno di attingere alla sorgente primordiale della voce pura: urlo, pianto, gemito, oppure del silenzio. Voce e silenzio sono complementari. Appartengono al Mistero dell’esistenza umana, non spiegano e non sono spiegabili, ma sono fonte e veicolo di energia vitale, dimensioni che conducono alla massima intensità della presenza e della relazione con sé stessi e con gli altri. I mistici, i filosofi e gli artisti, insieme ai bambini, lo sanno e sanno farne buon uso. Per questo abbiamo deciso di dedicare il secondo numero (il primo dopo il numero zero) della nostra rivista a questo binomio Voce/Silenzio, dopo aver affrontato il tema del binomio Menzogna/Libertà, in un contesto contemporaneo dove la comunicazione manipolata ingabbia e inquina la libertà di esprimersi. La voce e il silenzio sono strumenti di libertà, in quanto resistono a ogni tentativo di confinamento. Nei regimi autoritari, ma anche nelle democrazie incompiute, le voci degli oppositori e quelle dei giornalisti indipendenti che cercano di raccontare verità scomode (come dimostra l’attuale persecuzione di Julian Assange e di Wikileaks)  sono ridotte al silenzio, con l’intimidazione, la repressione violenta, la prigionia o l’annientamento psichico e fisico. Però anche il silenzio può dare voce alla disobbedienza e alla ribellione, un esempio recente ed emblematico viene dalla Birmania, dove gli attivisti hanno deciso di fare lo “sciopero del silenzio” (Silent Strike): “Abbiamo bisogno di mandare un messaggio al mondo intero, riguardo la terribile violazione di diritti umani in Myanmar. Il silenzio è il grido più assordante. Vogliamo indietro i nostri diritti. Vogliamo la rivoluzione. Nel silenzio vogliamo esprimere tristezza per i nostri eroi caduti” (Tayzar San, uno dei leader della protesta). La libertà ha bisogno di ritrovare la voce e sperimentare il silenzio per essere autentica, l’una e l’altro si potenziano a vicenda. Scoprendo ed esplorando la voce l’essere umano si è evoluto: è stata la voce ad unire le menti delle comunità primitive sviluppando le strategie di sopravvivenza e di comunicazione, aprendo la strada all’invenzione del linguaggio verbale. Scrive Demetrio Stratos, uno dei massimi sperimentatori della vocalità del Novecento: ““Tuttora non si sa esattamente da dove venga la voce. Oggi si parla della voce come di uno strumento difficile da suonare; e contrariamente a qualsiasi altro strumento che può essere riposto dopo l’uso, la voce non si separa mai dal suo proprietario e quindi è qualcosa di più di uno strumento. (…) Concepisco la voce come uno strumento pulsionale, dietro il quale esiste un intero universo di desideri: per esempio quello che ogni persona ha di andare a verificare i propri limiti.” Gli fa eco Carmelo Bene, Maestro della phonè, e artefice di un teatro che si sottrae alla rappresentazione: “Nella scrittura vocale, poesia è la voce. Il testo è la sua eco.  (…) Il VISIVO sulla scena è un SILENZIO musicale (lungo o breve spazio di tempo) della VOCE.“  I grandi poeti compongono versi per conquistare il silenzio, Mallarmé lo ha portato sulla pagina (Un colpo di dadi non abolirà mai il caso). Il silenzio è la loro più profonda vocazione perché è la voce della contemplazione, in questo si accompagnano ai mistici, tant’è vero che molti mistici erano poeti (come S.Giovanni della Croce, S.Francesco, Milarepa e tutti i sapienti Sufi). “Il silenzio monastico non vuol dire essere intontito o ammutolito. Il silenzio monastico è quello che è perché ha superato il mentale, è andato oltre le parole, perché ha trasceso i pensieri» (Raimon Panikkar) Un filosofo del linguaggio come Ludwig Wittgenstein raggiunge il culmine della sua consapevolezza quando afferma: “Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. Nei testi canonici si racconta che Buddha di fronte alle domande che gli furono sottoposte su alcuni temi fondamentali: : l’eternità del mondo, la sua finitezza, l’esistenza dopo la morte e l’identità tra anima e corpo, rifiutò di rispondere e rimase in silenzio. In realtà la sua risposta fu proprio il silenzio. La comprensione profonda e la sapienza trascendono la parola e richiedono un’apertura all’ascolto piuttosto che l’affermazione di verità indimostrabili. John Cage, musicista e filosofo della musica, considerava 4’33’’ (1952) la sua composizione più importante, sullo spartito l'esecutore trova l’indicazione di non suonare nulla (tacet) per tutta la durata del brano. Concepita per qualsiasi strumento e registrata anche su disco, questa “composizione” invita a mettersi in ascolto dei suoni dell’ambiente, perché “il silenzio puro non esiste”, tutto è permeato di suoni, il nostro corpo e lo spazio, naturale o artificiale, in cui viviamo. La dimensione generativa dell’arte, e della vita stessa, è un silenzio-vuoto in cui si manifestano e si dissolvono tutti i fenomeni, impermanenti e in costante trasformazione, una moltitudine interconnessa e mutante di esperienze sensoriali. Fondamentalmente, fare silenzio, al di fuori dei precetti scolastici, è fare spazio: a livello interiore insegna a svuotare la mente dal suo incessante chiacchiericcio; a livello relazionale favorisce l’ascolto e una comunicazione non verbale, dando voce ai sensi e al corpo; a livello sociale spegne o sospende il rumore incessante del vano e vanitoso talk show mediatico, come segno di dissenso, di resistenza, di purificazione, di liberazione e di rigenerazione. 

(a.b.)