I quattro momenti distinti del silenzio

di Raimon Panikkar

  1. Il soffocamento delle parole. Si tace nonostante si abbia molto da dire. Si tace per prudenza, per accortezza o per paura. Tale silenzio è un ammutolire. Esercita una violenza, mozza il respiro (…).
  2. Lo sbigottimento delle parole. Si tace per la mancanza di parole adeguate. Si tace per smarrimento, per inadeguatezza o per insipienza. E’ un silenzio che produce distanza, che rifugge il contatto. Lascia atrofizzare e consumare il rapporto vivo.
  3. L’inadeguatezza delle parole. Si tace perché si avverte di essere alla presa con qualcosa di inesprimibile. Si tace per l’impossibilità di esprimere ciò di cui si è avuta esperienza. Si ha sentore dell’indicibile e se ne è consapevoli. E’ il silenzio di chi rimane senza parola. Lo stupore dinanzi al mistero. Il suo pericolo è l’irrigidirsi e il rimanere bloccati. Qui l’uomo, per lo più inconsapevolmente, è posto dinanzi a una decisione: affermare la vita o scegliere la razionalità. La razionalità: il tentativo di tradurre l’indicibile in parole e in concetti. La vita: il rischio di lasciarsi prendere dall’indicibile rimanendo nel silenzio.
  4. L’assenza di parole. La parola non è più presente. Resta solo il silenzio. Il silenzio qui non è uno “stare in silenzio”, un azzittirsi in mezzo al frastuono. E non è neppure un tacere perché non si ha niente da dire; piuttosto si tace perché non c’è nulla da dire (…) Qui la parola non esaurisce la realtà. Il silenzio è il silenzio della parola: “Ciò di cui non si può parlare è proprio ciò che dev’essere sperimentato in quanto silenzio” (Wittgenstein).

R. PanikkarLa dimora della saggezza, Mondadori, 1991. Estratto dall’omonimo capitolo, pp. 97-123.

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