Rifuggire e rifugiarsi

di Sandro Fieno

Un uomo cammina senza sosta in una stanza, un perimetro quadrangolare di scotch delimita i suoi spostamenti nello spazio e i movimenti meccanici del bacino scandiscono il suo tempo. L’uomo percorre il perimetro seguendo un ritmo costante, i piedi non oltrepassano mai la linea di confine e la tautologia del suo passaggio erige le pareti di una nuova architettura immaginaria. In questa visione, lo scotch perde la funzione originale di traiettoria, trasformandosi in un basamento —un immaginario che riprenderà Lars von Trier in Dogville (2003). È possibile analizzare questa nuova architettura assecondando il principio fisico dell’entropia: attraverso uno scambio di energia tra corpo e ambiente si manifesta la trasformazione e costituzione di un sistema, che in questo caso tende all’eccesso e interrompe così ogni evoluzione spontanea. Da questa architettura irreversibile, l’uomo non può scappare: è prigioniero di se stesso. 
Walking in an Exaggerated Manner Around the Perimeter of a Square (1967) è uno dei primi esperimenti in cui Bruce Nauman esaspera la relazione tra corpo e spazio fino alla psicosi. Poco dopo realizzerà Wall-Floor Positions (1968) e Bouncing in the corner, No.1 (1968), performance dalla medesima natura disturbante ma con l’aggiunta di una superficie concreta contro cui Nauman rimbalza, sbatte e si posiziona. Le azioni dolorosamente anaforiche eseguite in confinamento —forse complice il momento storico che stiamo attraversando— generano discomfort, che in italiano renderei meglio con insofferenza. Questa insofferenza, per uno slancio empatico, ci rende ancora più coscienti sia del nostro corpo che della reclusione all’interno di una stanza/cella, che misuriamo insieme a Nauman un passo dopo l’altro, senza evaderne i confini.
Nell’arco di tempo delimitato dall’azione, la nostra dimora si trasforma nel Panopticon di Bentham, in cui ci sentiamo come sorvegliati da una telecamera a circuito chiuso alla stregua dello sventurato pagliaccio di Clown Torture (1987). In Forensic architecture: violence at the threshold of detectability  (Weizman, 2017), l’architetto Eyal Weizman  spiega come il trauma esperienziale della galera mescoli la percezione egocentrica e allocentrica dei detenuti, i quali si ritrovano a razionalizzare gli spazi in cui sono stati costretti ad abitare, quindi a ricostruire percettivamente la loro dimora-non-per-scelta, contando i passi e misurando il rimbombo degli echi contro le pareti. Un’architettura della memoria totalmente alienata, inquietante e claustrofobica, in cui i giustizieri/giustiziati si imprigionano senza via di fuga. 
Il pensiero va immediatamente a Haus Ur di Gregory Schneider, che nel 2001 vinse il leone d’oro alla Biennale di Venezia. Attingendo dalle memorie di un’infanzia di cui fu spettatore e non protagonista, Schneider ricostruisce dal 1985, all’interno di un appartamento in affitto, l’immagine della vecchia casa di famiglia. Nei panni di mnemo-architetto e mnemo-muratore, l’artista crea, poi cancella, dopo ancora accartoccia lo spazio, che alla fine tutto sembra fuorché una familiare casa accogliente, quanto piuttosto «una cella sotterranea priva di finestre» che «gioca sulla nostra società zoppicante e sulla sua invisibile psicopatologia» (Bonami, 2008). Una casa/trappola dalla quale pare impossibile uscire. Mike Kelley ha compiuto un’operazione simile, vivacizzata da un’estetica più pop e ludica ma non meno inquietante, nel 1999 con Unisex Love Nest: camerette fanciullesche in cui è tetramente confinata come uno spettro la sua esperienza di giovinezza straniata e avvilita, «che venne identificata come la condizione postmoderna di alienazione» (Kelley, 2003).
La domanda retorica sorge in modo semplice e spontaneo: è possibile che la casa non sia più il luogo adatto in cui rifugiarsi, ma piuttosto quello da cui rifuggire?

Quello che voglio dire è che probabilmente è necessario chiamare in causa la semiotica per ricontestualizzare il significato e il significante associati alla casa e alla fine disabitarla, conquistando la libertà migrando in cerca di nuovi rifugi, proprio come fanno le api quando cercano un nuovo alveare in cui spostarsi. Cavalco l’onda di questo ultimo esempio per un’ulteriore domanda: è possibile che il nascondimento abbia invertito il suo moto e che adesso il suo flusso sia dall’interno verso l’esterno, e che proprio lì risieda la nuova dimora in cui rifugiarsi?
Immagino allora l’epica eroica di una nuova Odissea, in cui l’artista diventa viaggiatore ed esploratore alla scoperta dell’ignoto per dischiuderne i segreti, in cerca di un luogo in cui eventualmente dimorare. Una dimora, attenzione, non chiusa, ma aperta; non interna, ma esterna; non di confinamento e alienazione, ma di espansione e collettività. Parlo di poema epico nella misura in cui si intenda come «un componimento letterario che nasce per essere condiviso nel tempo da un’intera comunità desiderosa di consolidare la propria identità» (Balmas, 2012).
Allora l’arte, a cui mi riferisco nella sua interpretazione più fluida e variegata, potrebbe avere oggi il fine ultimo di far emergere dalle acque una nuova isola, come quella maestosa e selvaggia nelle prime sequenze del secondo film del Cremaster Cycle di Matthew Barney, in cui le comunità possano aggregarsi e abitare insieme, vincendo la sociopatica condizione antisociale di confinamento. Eppure non è l’isola il vero obiettivo della ricerca. Voglio dire che in questa Odissea al rovescio il viaggio, l’incontro e la compresenza diventano la nostra casa delocalizzata, incorporea, in cui transitiamo, radicandoci e sradicandoci ciclicamente. Questa pratica evoca le istanze dell’Estetica relazionale, teorizzata da Nicolas Bourriaud nel 1998, il quale definisce l’arte come «uno stato d’incontro» in cui le «interazioni umane […], più che uno spazio simbolico autonomo e privato», educano «ad abitare meglio il mondo»  (Bourriaud, 2010). Sarà questa comunione il nostro nuovo rifugio ideale? 

Così un uomo balla su un cubo, il cui perimetro è segnalato da una fila di lampadine accese, brillanti. L’uomo indossa solo dei calzoncini di lamé argentati e delle Adidas ai piedi; alle orecchie delle cuffie attraverso le quali ascolta musica dance anni Ottanta. L’uomo che balla domina lo spazio senza restrizioni, annientando la staticità scultorea del piedistallo sul quale si esibisce con movimenti liberi e spontanei. Le luci attorno non sono un limite ma una porta d’accesso, attirano gli astanti che lo accerchiano curiosi, divertiti e, soprattutto, complici. In quella dimensione collettiva di partecipazione, «nell’asetticità estetica del white cube, la go-go dance irrompe con tutta la carica erotica della disco dance» (Macrì, 2020), il cubo come solido esplode e lo spazio si dilata, accogliendo le persone in un nuovo rifugio in cui abitare insieme e in libertà. Il Go-go dancer in calzoncini scintillanti è il fondatore di questa neonata comunità, generata sotto il segno dell’accoglienza e della resistenza alla sottomissione imposta dalla prigionia. L’opera è Untitled (Go-go dancing platform) (1991) di Felix Gonzalez-Torres.

È possibile che la casa

non sia più il luogo

adatto in cui rifugiarsi

ma piuttosto quello

da cui rifuggire ?

Bibliografia in ordine alfabetico

  • Paolo Balmas, CREMASTER poema epico, in N. Dusi, C. G. Saba, Matthew Barney. Polimorfismo, multimodalità, neobarocco, Silvana Editoriale, Milano, 2012. p.90
  • Francesco Bonami, Gregor Schneider, articolo per la sezione online di Domus, 06/06/2008. https://www.domusweb.it/it/arte/2008/06/06/gregor-schneider.html, 18/11/2020.
  • Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia Books, Milano, 2010. 
  • Mike Kelley, Cross Gender / Cross Genre, in M. Kelley, Foul Perfection: Essays and Criticism, MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 2003. 
  • Teresa Macrì, Slittamenti della performance, Postmedia Books, Milano, 2020. p.194

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