“Scentrature…”

di Giulio Calegari

Dal mio balcone vedo la Madonnina. Un punto luminoso, dorato: il centro di Milano.

Percepisco la città che si irradia dal suo nucleo come una ragnatela. Cercherei il suo centro anche se avesse tutt’altra forma. Cercherei un perno fisso, insomma.

Ragioniamo ormai con una mentalità da sedentari, da popoli agricoltori. È da una decina di migliaia di anni che abbiamo cominciato e, pian piano, ci siamo abituati a questa condizione.

La maggior parte della nostra specie necessita di un punto fermo, ombelicale: granaio o campanile, palazzo, monumento o quant’altro possa essere riferimento dal quale si diparta il nostro spazio.

Anche se non sarei così sicuro che, complici le nuove tecnologie, sarà così per molto. Confido in un ritorno alla mente paleolitica!

Leroi-Gourhan, nel suo libro Il gesto e la parola sintetizza la nostra percezione del mondo in spazio itinerante e spazio radiante. Nel primo caso, che appartiene alle popolazioni di cacciatori raccoglitori, di cui rimane forse qualche vago riflesso, la conoscenza del mondo si attua prendendo coscienza del territorio percorrendolo. Con lo spazio radiante dei sedentari invece il territorio si acquisisce da fermi, dal centro del proprio insediamento. Come i cerchi di un sasso gettato nell’acqua 

Ma se per i nomadi, in generale, il territorio viene vissuto attraverso lo spostamento, il sedentario ne conoscerà la forma dal suo osservatorio statico e il suo orizzonte sarà il cerchio più lontano alla vista.

Nel primo caso la descrizione del mondo, sia racconto orale o figurativo, magari sonoro, richiamerà incontri con la natura del territorio in un’espressione artistica (pensiamo all’arte delle caverne) da cogliere in movimento, in viaggio, anche solo con lo sguardo. Liberi da vincoli temporali.

Il sedentario invece farà riferimento ad un’osservazione statica del territorio, di andata e ritorno: da una parte sorgerà sempre il sole che tramonterà dal lato opposto, i venti, le luci e le ombre seguiranno percorsi immutati e così via, ad immaginare direzioni dalle quali aspettarsi eventi positivi o nefasti. E ci saranno varchi o porte per accogliere o respingere tutto ciò. Ci saranno periferie.

Immaginiamo come questo spazio delimitato e “crocefisso” al suolo dal sedentario possa dare origini a descrizioni o simboli legati a figure geometriche: cerchi concentrici, inquartati, raggiati, cruciformi e così via, a ribadire quello sguardo ben diverso da quello nomade.

Ho passato mesi, nel corso delle mie spedizioni archeologiche tra il 1983 e il 1990, con le popolazioni tuareg del nord del Mali, nel Sahel, in un territorio difficile ed estremo, con migrazioni di svariate centinaia di chilometri, ricco di riferimenti topografici e simbolici: pascoli stagionali o tracce di vecchi fiumi, rocce, pozzi, antiche tombe o vestigia; punti indispensabili alla comprensione di una mappa mentale che non esclude oasi, o villaggi: centri di mercato o di vita religiosa ai quali accostarsi occasionalmente.  

Taouardei (Mali), Spazi nel complesso roccioso adibiti dai tuareg come percorsi o
luoghi di incontro, 1990. Fotografia di Giulio Calegari.

Ho incontrato vecchi alla fine della loro vita sotto tende in accampamenti temporanei, vi ho visto nascere un bimbo. In quale periferia o centro quegli uomini potranno dire di essere venuti al mondo?

Eppure, tra questi punti sparsi ho ritrovato una “città invisibile”: Taouardei, dal nome della nobile fanciulla che in tempi mitici, fuggita per amore, aveva abbandonato i suoi effetti personali: borse e cuscini che si trasformarono in enormi massi di granito che caratterizzano il sito. Sul territorio nomadizzano gruppi tuareg appartenenti alle confederazioni Ioullimiden e Kel Ifoghas. Il complesso che, allo sguardo, suscitava già di per sé l’immagine di una città geologica, spiccava come luogo evidente nel grande vuoto circostante. Anche il mitico gigante Amamellen era qui nominato, a ribadire leggende legate all’antica territorializzazione paleo-berbera.

Regola dei nomadi è quella di possedere cose utili, trasportabili, belle. Una bellezza riposta anche in ogni gesto: quello di pregare o di attingere acqua. Come tracce presenti ed evidenti che ne richiamano di assenti, invisibili. Mi sono così accorto che di Taouardei era possibile tracciare una vera e propria mappa. Una città a me invisibile che compariva quando, nei loro percorsi stagionali, i nomadi venivano ad accamparsi alcuni chilometri attorno e, in quel labirinto di pietra, scorgevano e deponevano la loro idea di città, ancorandosi a riferimenti topografici che via via sono andato scorgendo. Deponevano questa bellezza come un tappeto trasportato da lontano, in mancanza del quale, per pregare, può bastare uno spazio delimitato da quattro pietre. Ed è già architettura!

Percorriamo dunque di gran fretta, perché abbiamo poco tempo, questo luogo dove centro e periferia convivono nei suoi punti salienti. Innanzitutto i pozzi, che rappresentano la più evidente ragione pratica per frequentare il luogo. Attorno, in piccole aree, si concentrano animali e uomini impegnati nelle loro attività legate all’acqua.

E poi anfratti e ripari tra le rocce utilizzati come ricoveri-ripostigli dove conservare manufatti ed attrezzi (carrucole, cordami, paletti, grandi catini, o preziose lastre di sale) scomode da portarsi sempre appresso. Intorno al 1986 furono aggiunti quattro semplici edifici di terra.

Una topografia funzionale pare decisamente intuita nell’architettura geologica del posto, tra le sponde di uno uadi e le grandi rocce, segnate da numerose incisioni rupestri, quasi indicazioni stradali, che ribadiscono la presenza degli antenati. Vengono così a crearsi veri e propri ambienti e percorsi, piazze e strade: per spostarsi con gli animali o radunarli, passeggiare, far mercato o appartarsi a fare quattro chiacchiere, bevendo un tè. Nessuno però si ferma al tramonto, un timore reverenziale spinge ad accamparsi lontano. In periferia?

Il legame con gli antenati è poi ribadito da numerose tombe (islamiche antiche) forse di personaggi importanti o di santi. Isolate, hanno forma ellittica di pietre accostate. Più modeste, vicine l’una all’altra, altre tombe costituiscono due aree cimiteriali ancora utilizzate. Pare che i Tuareg che nomadizzano questo territorio cerchino di portare a Taouardei i loro morti, anche da località distanti.

Un cerchio di pietre di circa tre metri mi è stato indicato come luogo di preghiera, una Moschea come se ne trovano in ambiente sahariano. Una vera architettura virtuale di cui è tracciata sul terreno solo la pianta. Il corpo dell’edificio è riposto nella mente dei fedeli.

Sulla nostra mappa andrà indicato, a poche centinaia di metri un gruppo di rocce, alte una decina di metri, vicine tra loro e insieme compatto. Sono chiamate “la casa degli antenati”. I dintorni sono ricchi di reperti archeologici. Mi ricordavano un condominio di periferia. Nel cuore del labirinto granitico è invece presente una grande vasca circolare di oltre due metri di diametro, forse opera dell’uomo, particolare di grande potenza immaginativa, ombelico che scava la sommità di un masso tondeggiante. In essa tracce dei livelli di acque occasionali. Al suo interno incisioni rupestri di semplice fattura. 

Mi è stata poi indicata una “pietra che canta”, un litofono. Grande lastra di granito che percossa e strofinata emette suoni potenti. Guardiana di un angolo del complesso roccioso sembra rivolgere la sua voce al grande deserto. 

Un ultimo punto tra quelli che posso indicare sulla mappa invisibile di Taouardei è caratterizzato da alcuni cumuli di pietre e legni gettati al culmine di particolari massi, piatti alla sommità, nell’angolo nord-est del grande labirinto. Forse un’antica pratica che lega il lancio di una pietra a spiriti cattivi o ad un desiderio, prima di un viaggio o un’impresa. 

Giulio Calegari, Pollicino nel Sahel, 2022, Percorso punteggiato a pennarello su
acetato, striscia di tessuto tuareg tinta con l’indaco, cartoncino.

Di certo altri punti che non abbiamo colto, potrebbero completare la mappa invisibile di questo spazio di identità culturale dove centro e periferia si confondono, sorgono e scompaiono con chi sa riconoscerli e nominarli nel corso del viaggio e della sosta

Nella nostra cultura qualcosa rimane nei miti degli eroi viaggiatori. Nostalgici di nomadismo. Pensiamo a Gilgamesh, ad Ercole o banalmente a Ulisse. Personalmente, perché amo errare, adoro il percorso iniziatico di Pollicino, che si perde lontano dal suo centro e ne ritorna arricchito.

Del resto, oggi, siamo forse contemporaneamente nel centro e nella periferia del mondo. Quasi tutti viandanti.

Immagine in evidenza: Taouardei (Mali), località archeologica, 1983. Fotografia di Giulio Calegari.

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