Un silenzio molto rumoroso

Le ultime lettere di mio nonno, deportato e ucciso ad Auschwitz

di Massimo Voghera

Gino Voghera, figlio di Benedetto Salvatore Voghera e Anna Salom è nato in Italia a Padova il 24 maggio 1889. Coniugato con Gaetana Nejrotti.
Arrestato a Torino il 19 marzo 1944. Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Ha avuto tre figli : Giorgio (mio papà), Anna, Mario. Non è sopravvissuto alla Shoah.

“Parto calmissimo e sanissimo, armato di rassegnazione e di volontà fanatica di ritornare tra voi a guerra finita – è questo il miserabile modo per me di combattere questa guerra, è questo il prezzo che io devo pagare per il trionfo della giustizia – speriamo che la pace non sia ormai troppo lontana e che possiamo presto riuniti raccontarci queste dolorose vicissitudini.”

Sono otto lettere, quelle scritte da Gino Voghera dal campo di concentramento di Fossoli, che riportano indicazioni, richieste, raccomandazioni a moglie e figli, insieme ad una rassicurazione costante ripetuta alla fine di ogni lettera: “salute ottima”.
Le parole rimangono sulla carta silenziose ma allo stesso tempo provocano un frastuono continuo, assordante, come tutte le lettere scritte in carcere dalle vittime del genocidio della seconda guerra mondiale. In corso Matteotti 31 rimane la “pietra d’inciampo” (una delle tante ahimè) che ricorda che lì ha abitato questo tranquillo e distinto signore ebreo con la moglie e i tre figli, arrestato il 19 marzo 1944 dai fascisti, deportato in un primo momento nel campo di Fossoli e poi caricato sul carro bestiame all’alba del 1 agosto del 1944 con destinazione Auschwitz, da cui non è più tornato.

Ciò che maggiormente colpisce dalla lettura di queste lettere, scritte con un tono dapprima tranquillo poi sempre più concitato e drammatico, è il parlato quotidiano di un uomo che, scaraventato di colpo in una situazione di prigionia e di incertezza per il futuro, si rende conto via via che i treni che partono dalla stazione di Carpi per la Germania rappresentano un percorso di non ritorno verso destinazione ignota (Auschwitz fino a quel momento era una località assolutamente sconosciuta). Gino Voghera salì su uno di quegli stessi convogli che a febbraio portarono da Fossoli al campo di sterminio di Auschwitz anche Primo Levi, di lui rimangono otto fogli che con il loro rumoroso silenzio continuano a chiedere per sé, per suo fratello Ferruccio, la sua compagna e la di lei figlia: “…vestito gabardina pullover impermeabile giacca a vento scarpe grosse molti mangerecci conservabili et danaro abbondante. Per Ferruccio vestito blu, 1 paio scarpe impermeabile, per Ada, biancheria 1 vestito 1 paio scarpe, per Thea scarpe impermeabile calzettoni calze oggetti toilette-1 sacco viaggio…mio rasoio 1 paio forbici-4 scodelle galalite-1 catino latta-1 spazzola abiti…”
Gino Voghera parte per Auschwitz con in tasca un piccolo quadro di sua figlia Anna studentessa all’Accademia di Belle arti di Torino: “ PS: Come feticcio mi accompagna il quadretto della mia Anna che ho fatto rozzamente incorniciare qui e che avrà il posto d’onore nella nostra casa ricostituita, papà”.
Mentre scrivo queste poche righe sullo schermo scorrono le immagini dell’Ucraina e mi viene in mente il più velenoso, e purtroppo vero, fra gli aforismi di Karl Kraus: “Il diavolo è un ottimista se pensa di poter peggiorare gli uomini”.

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