Riflessioni sul libro Il Sensore che non vede di Gabriele Perretta
di Edoardo Di Mauro
Conosco Gabriele Perretta fin dalla seconda metà degli anni Ottanta quando, entrambi giovanissimi, giravamo irrequieti per l’Italia alla ricerca di nuovi indizi d’arte da recepire, assimilare ed organizzare. L’attitudine di Gabriele, intellettuale dalla solida formazione filosofica, mentre il sottoscritto si è formato con un approccio letterario-sociologico, fin da allora si rivolse all’analisi, che anche io portavo avanti, sulla situazione creatasi a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta dove, esaurita la prima fase della post-modernità legata unicamente al ritorno alla pittura, cominciava ad intravedersi lo scenario che, sebbene con alcune differenze, è a tutt’oggi vigente, un eclettismo stilistico dove non vige più una linea formale predominante, ma ne convivono insieme diverse, tutte caratterizzate inevitabilmente dal confronto con una tecnologia in rapida evoluzione. Perretta, attorno al 1990, coniò e teorizzò il termine Medialismo per indicare la sua visione di questo nuovo stato d’animo e rinnovata prassi, dove venivano individuati artisti che usavano la pittura in una accezione di confronto con l’immaginario tecnologico e comunicativo, altri che praticavano il linguaggio dell’installazione, ed anche la riflessione analitica su di un possibile uso alternativo e non omologato delle tecnologie verso una contro-informazione rispetto ai dogmi imperanti. Ricerche simili ed in diversi casi omologhe alle mie, entrambe con l’obiettivo di favorire un rinnovamento generazionale dopo le ondate dell’Arte Povera e della Transavanguardia.
Purtroppo, il sistema italiano dell’arte durante gli anni Novanta si diresse verso la promozione di una linea neo-concettuale epigona e derivativa, inibendo le energie nuove ed il pensiero non conforme. La tenacia degli artisti e dei teorici non omologati ha permesso a quella scena artistica ed a quel pensiero di riaffacciarsi alla ribalta nell’ambito di una crescente rilettura e valorizzazione delle esperienze. Gabriele Perretta in questi anni ha proseguito con coerenza la sua attività curatoriale e saggistica. Il recente “Il Sensore che non vede”, rappresenta un’ampia sintesi del suo pensiero aggiornata al presente.
Tema di fondo, articolato in più riflessioni, la constatazione che il proliferare incessante di immagini di ogni sorta abbia indotto una crisi del “terzo occhio” e della predisposizione percettiva. Perretta da un lato mette in guardia sui rischi di questa crisi della visione, che possono far passare l’abitudine alla percezione di prodotti estetici fallaci e menzogneri fatti passare per espressione artistica, dall’altro sulla necessità che la consapevolezza del problema determini una contro reazione che sappia generare nuovamente un uso costruttivo ed artisticamente valido dei repertori tecnologici, con cui è necessario un costante confronto. Il sensore che non vede si fa specchio del mondo, capace solo di rifletterlo.
Il saggio si incammina verso variegati percorsi, che affrontano la rappresentazione naturalistica da Aristotele agli attuali esiti, il rapporto tra pittura, fotografia, video ed immagine digitale, in particolare tra il soggettivismo pittorico e l’obiettività fotografica, il cosiddetto miracolismo mediatico che conduce direttamente al fenomeno delle fake news, in realtà antico come le leggende, anch’esse false che però contengono al proprio interno una parte di verità, la separazione tra uomo e natura nell’attitudine occidentale, diversa da quella orientale dove gli elementi della realtà e della natura sono interconnessi tra loro. Per passare ad una critica serrata, e talvolta saggiamente ironica, verso la pratica espositiva attuale dove, parafrasando Guy Debord, l’economia del simbolico non è più altro che simbolico dell’economia, così come lo svilimento di buona parte della critica ridotta a pura pratica notarile di convalida di prodotti artistici suggeriti dagli attori economici del sistema, pronti ad offrire manufatti esteticamente “corretti”, opportunamente omogeneizzati e globalizzati di modo da risultare intercambiabili a tutte le latitudini. Un saggio stimolante, da rileggere e conservare per il futuro. Nel corso degli ultimi anni ho compiuto diverse analisi su questi temi.
L’arte non può essere spiegata a prescindere da ben determinati fattori storici e sociali ma è anche evidente come l’esasperazione di questi presupposti porta ad un disciogliersi del messaggio all’interno dei meccanismi della comunicazione. Il risultato in termini estetici è il cosiddetto “sensazionalismo”, procedimento in cui l’arte intende provocare disgusto e turbamento allontanandosi volutamente dal pubblico ma accrescendo la sua “audience”. Tali fenomeni sono stati introdotti dal nichilismo e dalla “morte di Dio” teorizzata da Nietzsche sul finire del secolo scorso: l’avvento della tecnica svuota progressivamente la civiltà occidentale delle antiche certezze ed anche l’arte conosce lo stesso destino il cui esito finale si ha dopo la seconda metà degli anni ’70, quando viene meno la spinta propulsiva e vitalistica delle avanguardie storiche strettamente correlate al concetto del Superuomo. La citazione esasperata e spesso sterile delle esperienze del passato, il cinismo dichiarato con senso di supponenza è per molti aspetti espressione di questo rimpianto. Tuttavia in questi anni d’esordio del nuovo millennio si intravede la possibilità di una “terza via” al di là di improbabili volontà di restaurazione di una classicità statica o di un totale annullamento dell’arte nel reale e nella comunicazione: un atteggiamento che, pur partecipando alle vicende del quotidiano, interviene su di esse per gettarvi verità, resistendo al conformismo ed alla massificazione dell’opera per restituire all’arte grandezza progettuale e dignità estetica. Un indizio di questo mutato atteggiamento è dato dalla capacità attuale di usare le tecnologie nella loro specificità di linguaggio.
Il tutto parte dal ruolo assunto dalla fotografia che si è riversata massiccia nel panorama eclettico della contemporaneità privilegiando la funzione piuttosto che l’oggetto e diventando gradualmente una delle dimensioni narrative maggioritarie, trascinando con sé il video, suo successore e derivato tecnologico. L’atteggiamento si è manifestato nella duplice accezione di una partecipazione “fredda”, tendente a privilegiare una classificazione impersonale ed asettica dell’esistente e della banalità quotidiana, ed un’ altra dimensione “calda” e psicologica, in cui gli artisti hanno adoperato il mezzo come estensione del proprio io, per calarsi nel reale con atteggiamento di affettuosa partecipazione. Ma questo non è affatto in contraddizione con un uso “artistico” del mezzo, anzi semmai ne rafforza la vocazione di strumento atto a cogliere il reale nell’accezione di un abbraccio interiore, di un congiungimento con l’io dell’artista. Dopo la plurisecolare prevalenza del razionalismo introdotto dal Rinascimento e confermato dall’Illuminismo, dominato dal “logos”, le tecnologie immateriali ci hanno introdotti nella civiltà dell’immagine, in cui si assiste ad una ripresa di valori magici e rituali che collegano la nostra epoca ad un passato premoderno con la ricomparsa di antichi archetipi ed una nuova dimensione comunitaria in cui l’individuo vive attraverso lo sguardo e le leggi degli altri. Dall’epoca del disincanto si passa a quella del reincanto, anche se è evidente che stiamo vivendo una fase di ingresso e di assestamento caratterizzato da innumerevoli contraddizioni.
