L’esperienza dell’arte nell’epoca dell’incanto della tecnica

di Dario Evola

Nel polo dialettico artificio/natura si sostanzia il processo formativo di quella particolare attitudine umana che va sotto il nome di arte. Arte, artificio, artefatto, hanno la radice lessicale nel concetto greco di Techné. Nel percorso della cultura occidentale, almeno dal pensiero greco in poi, si costituisce un paradosso per cui l’artificio definisce la consapevolezza della natura. L’emergere della coscienza della tecnica come mezzo e come fine nella ontologia dell’essere, apre la relazione con l’altro della tecnica che è appunto la natura. L’uomo tecnico, l’uomo abile sperimenta possibilità praticate dal corpo al di fuori del corpo come “prassi progettuale”. La cultura greca inizia dalla consapevolezza della techné come prassi che significa come altro dal corpo e che si radicalizza nel binomio dialettico Natura/Cultura. Poiein (fare, creare) differisce dal generare naturalmente. La produzione dell’uomo come scelta operativa libera e consapevole, si differenzia dalla produzione generativa naturale per necessità e inconsapevole, caratteristica delle piante e degli animali. L’operatività umana è, prima di ogni altra cosa, consapevolezza di un possibile. Da questa consapevolezza deriva quella attitudine specifica dell’uomo che è il processo di formatività come evidenziato da Pareyson e da Focillon. L‘origine del processo di produzione di forme ha come punto di partenza la riproduzione dell’uomo stesso, nelle prime rappresentazioni, graffiti, statue, architetture, è il corpo che si proietta fuori di sé abbandonando la qualità di carne per espandersi come corpo in potenza e in atto. Le figure dipinte sulle pareti delle caverne, le statue degli dei con le sembianze umane, proiettano l’immagine di sé dell’uomo in un processo formativo che, relazionandosi alla condizione di natura, supera la condizione naturale per estendersi come possibile. Il demiurgo di immagini è colui che opera nella techné con la metis, con l’intelligenza e l’astuzia operativa. Il pensiero greco che, da Platone ad Aristotele, elabora il concetto di immagine, di percezione, di rapporto con la natura come mimesi differita dalla copia ingannevole, conferisce a quel che nella modernità del XVIII secolo diviene il concetto di Belle Arti. Il processo operativo artistico si equipara al processo naturale, ma praticato con artificio per opera del Genio. La percezione dell’artisticità apre, da Kant in poi, al gusto, al giudizio riflettente, conferendo all’arte una funzione conoscitiva che, a partire dalla percezione, dal sensibile, offre pensiero. Le Accademie di Belle Arti e i Musei troveranno, con l’istituzione dell’Estetica, una inedita relazione fra l’operatività artistica pensata come percezione-produzione. Il museo moderno, istituisce un paradigma culturale nuovo che segnerà la modernità dell’arte. Il rapporto arte natura sarà al centro della riflessione nella modernità illuminista. Diderot è il primo critico d’arte, capace di relazionare lo sguardo dei salon alla naturalità del processo artistico. Arte e Natura, sarà il binomio dialettico che caratterizza il vivacissimo dibattito del XVIII secolo. Nel secolo successivo, con la visione romantica, la natura diventa artificio, prodotto dello sguardo tradotto in segno artistico, raggiungendo il culmine della sperimentazione con la radicalizzazione del segno pittorico nella Macchia e nel Divisionismo insieme all’Impressionismo e al post Impressionismo. L’avvento della visione prodotta dalla macchina, la scrittura per luce della fotografia, crea una nuova percezione della natura, una traduzione che apre la via a quel nuovo “inconscio ottico” individuato da Walter Benjamin con la perdita dell’aura e nella consapevolezza di una costruzione dell’immaginario prodotto della macchina. Il cinema costituirà lo sguardo del Novecento modificandone la percezione di spazio e di tempo con il montaggio. L’arte non è la copia della natura, è bensì un processo di coscienza e di costruzione dello sguardo mediato dall’artificio, dal linguaggio artistico, risultato dalle tecniche operative dell’artista. L’arte è dunque quello sguardo attraverso, individuato da Garroni, che rivela il proprio aspetto veritativo nella operatività dell’artista. L’arte è in questo senso forma del possibile. Il processo artistico è l’altro da sé, il doppio non come copia, ma come alterità. Bisogna ricordarsi di questo passaggio così importante quando si riflette sull’insegnamento artistico in accademia. L’immagine dice prima di tutto stessa, ma mentre dice sé stessa si relaziona ad una alterità e, costituitasi come doppio, dice allo stesso tempo altro da sé. L’artificio e la operatività che lo progetta e lo articola ne definisce il polo dialettico. L’esercizio formativo della mano e del corpo ne costituiscono la base operativa.

Cézanne dichiara che bisogna trattare la natura secondo il cilindro, la sfera e il cono, il tutto messo in prospettiva. Mentre dipinge la montagna Sainte Victoire, mentre è immerso nel paesaggio, si rende conto che “il paesaggio si pensa in me”. Il processo di formatività dell’arte, l’esperienza del dare forma come possibile. Operare, cioè praticare opzioni come possibilità, costituisce il principio di libertà dell’artista e il processo veritativo dell’arte, secondo cui l’arte è quella particolare disciplina che, mentre crea, istituisce le proprie regole. L’insegnamento artistico si sostanzia nella consapevolezza di questo processo e si esercita nel laboratorio secondo il trinomio apprendere, praticare e produrre, che dovrebbe essere alla base del lavoro di formatività in Accademia. Si assiste purtroppo ad una pericolosa tendenza a trascurare l’esperienza laboratoriale, ridotta a mera performatività depotenziata di ogni tensione analitica. Una diversa esperienza era quella degli anni Settanta, in cui il confronto dialettico con la tecnologia elettronica e digitale sperimentava vie inedite capaci di comprendere l’operatività performativa del corpo in relazione ai dispositivi, in una relazione critica e analitica intermediale, non solo multimediale, capace cioè di sperimentare inedite possibilità operative, cognitive e critiche. Da Leonardo a Kant l’arte è pensata come riflessione. La funzione dell’arte risiede essenzialmente nel sollecitare il sensibile e di orientarlo secondo lo sguardo altro dell’artista che ha optato per la propria originale operatività. Bisogna ricordarsi di questi principi così importanti particolarmente in un periodo come quello attuale in cui l‘arte sembra involversi in un nuovo conformismo accademico, rinunciando alla processualità formativa-operativa, per appiattirsi nel feticismo tecnologico e nell’omologazione dei “messaggi” imposti dalla ortopedizzazione sociale e dal marketing ideologico woke, vanificandone ogni opzione veritativa. Le pratiche contemporanee sono di fatto distanti anni luce della tensione concettuale delle esperienze delle avanguardie. Lo stesso termine avanguardia è scomparso dal lessico del contemporaneo. Nel 1968 Gillo Dorfles pubblica Artificio e Natura, aprendo lo sguardo ad una nuova percezione dell’artistico nel contemporaneo. Dai media alle nuove correnti pittoriche degli anni Sessanta, dalla grafica all’architettura, dal comico alla pubblicità, dalla nuova musica alla poesia visiva, quelle neoavanguardie che restituivano all’opera d’arte la propria natura oggettualizzante, in un rapporto dialettico con il “naturale”, alla ricerca dialettica di un possibile equilibrio di esperienza fra natura e artificio. Ma erano quelli anni di utopie, e quell’idea di un consolidamento sociale della civiltà moderna della tecnica si palesava come profezia. Decenni più tardi un saggio-manifesto di Paolo Rosa e Andrea Balzola, L’arte fuori di sé, richiamava l’attenzione sulla riconfigurazione della funzione artistica come alterità e come possibile in una età già post-tecnologica. Sottolineavano i due autori il disincanto dalla magia tecnologica nella crisi identitaria dell’arte degli anni Duemila. L’arte risulta prigioniera dell’incanto del suo stesso dispositivo tecnologico, in una chiusura narcisistica e autoreferenziale, orientata dal marketing e dalle mode culturali, distaccata dalla vita e dunque dal sensibile. Nel saggio-manifesto si indica una via di uscita appunto nella consapevolezza della natura di artificio dell’artistico in un possibile spostamento del baricentro dall’autoreferenzialità “autoriale” a una produzione di senso “aperta” e collettiva capace di esperirsi come forma ed esperienza del fare, ripensando il rapporto con il dispositivo tecnologico come possibilità operativa. Nel periodo della pandemia Andrea Balzola approfondisce la relazione fra didattica e tecnologia in Edu-action, nel quale si rileva il rischio di una applicazione tecnologica totalizzante. La tecnologia, rileva l’autore, dovrebbe essere pensata al servizio della cultura come tecnicultura, e non come tecnocrazia. Nella relazione dialettica natura/cultura vale ancora l’avvertimento di Kant già alla soglia dell’Illuminismo: “Pensa sempre all’uomo come fine e non come mezzo”. Del resto Adorno e Horkheimer ci hanno già messo in guardia dal pericolo della tecnocrazia nella figura di Ulisse, spettatore legato all’albero della nave in mezzo al canto delle sirene.

Bibliografia

A. Balzola, A.M. Monteverdi, Le arti multimediali digitali, Garzanti, 2004.

A. Balzola, P. Rosa. L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post tecnologica, Feltrinelli, 2011.

A. Balzola, Edu-action, Meltemi, 2012.

W. Benjamin (1935), L‘opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, 1975.

P. Cézanne, Lettere, a cura di E. Pontiggia, SE, 1985.

G. Dorfles, Artificio e natura, Einaudi, 1968.

D. Evola, La funzione moderna dell’arte. Estetiche delle arti visive, Mimesis, 2018.

H. Focillon (1939), Vita delle forme. Elogio della mano, Einaudi, 2002.

D. Formaggio, Arte come idea e come esperienza, Mondadori, 1981.

E. Garroni, Estetica. Uno sguardo attraverso, Garzanti, Milani, 1992. 

M. Horkheimer, T.W. Adorno (1944), Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, 1978.

L. Pareyson (1954), Estetica, Bompiani, 1998.

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