di Gabriele Perretta

L’Intelligenza Artificiale è un insieme di tecnologie e processi in grado di elaborare grandi quantità di dati artistici, per restituire sintesi o previsioni complesse e razionali. In effetti, non esiste una sola definizione di AI. Il mondo della finzione si configura in una nuova realtà per il curatore AI, così osserviamo che la realtà artistica del database storico è concatenata a una serie di altre realtà, dando origine a un “nuovo prodotto”. In questa intricata ri-creazione, “l’opera aperta digitale” è capace di offrire un’opportunità di trasformazione e di rappresentazione di ogni singolo dato. Quindi, la finzione estetica consente al curatore di essere un soggetto artistico autonomo. Ma poiché la velocità della finzione costruisce un mondo tanto articolato da renderlo non del tutto decifrabile, perché i processi sottostanti sono simili (o almeno ambiscono ad esserlo) solo in alcuni casi, bisogna allora fornire un contesto significativo per affrontare l’incertezza e la complessità del percorso artistico, per non lasciare tutto nelle mani dell’abisso enigmatico introiettato da Marcel Duchamp. Il lavoro per l’artista si fa sempre più concettuale e relazionale: connettere idee diverse per creare concetti nuovi e insoliti, connettere tecnologie senza tecnicismi con culture tecnologiche senza determinismi. Ricordiamo che la creatività è caratterizzata dalla capacità di percepire il mondo in modi nuovi, di trovare schemi nascosti, di stabilire connessioni tra fenomeni apparentemente non correlati e di generare nuove soluzioni. Questa capacità tipicamente umana di “connettere” diventa fondamentale per dare significato e valore a ciò che impariamo, costruiamo ed attiviamo nell’ecosistema in cui operiamo. Poi, per tutto il resto, basta sempre un semplice algoritmo.

Machine learning significa macchine che imparano, a cui potremmo aggiungere macchine che readymade-iano; una sorta di tautologia curatoriale della macchina che traduce l’anglicismo del “già fatto”, del pronto all’uso con il “pronto alla curatela”. Questa operazione di conio del Medialismo, sperimentata nell’area delle Imprese Mediali (1.0 nel 1991), veniva concepita in un momento in cui Internet non era ancora una realtà di massa. Lo sviluppo del machine learning fa tesoro del passato per conoscere meglio il futuro (senza sfera di cristallo, ma con modelli predittivi da curare). Il deep learning è, a sua volta, un sottoinsieme del machine learning: significa letteralmente “apprendimento profondo”. Dunque, continuando il ragionamento semiologico, se il deep learning è usato dalla macchina come tavolozza dell’artista, la posizione del medesimo slitta ad occupare la figura del curatore. A differenza di più comuni processi di machine learning, basati sull’elaborazione dei dati per eseguire la realizzazione di un progetto o di una forma espositiva, il deep learning sviluppa modelli su più livelli: opere, mostre, orizzonti espositivi, etc., portandosi via lexperience design dell’artista e del curatore, individuando, estraendo ed elaborando dati in autonomia, senza che sia l’artista o la natura a fornire la materia prima per funzionare. Il carburante dell’intelligenza artificiale usata in campo artistico sono dunque i database della cultura visuale, gli algoritmi rappresentano l’anima razionale, il pennello e il colore per poter comporre. L’artista-curatore mediale (il ready for curatorship), trovandosi a vivere in una società dalle mille sollecitazioni iconiche, rischia però di introiettare i messaggi in maniera confusa e perdere il discernimento tra la buona e la cattiva immagine e di compromettere la libertà spirituale all’interno dell’ambiente artificiale. Per non banalizzare i processi in uso, l’experience designer deve essere supportato da una trama di testi mediali che producono forme di interpretazione e di integrazione e fanno circolare le informazioni, le ordinano, contribuendo alla creazione della cultura artistica del medium come pratica sociale sempre aperta.

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