Organismi cibernetici: “ibridi, mosaici, chimere”¹

di Valentina Zucca

Il binomio oppositivo dei termini “naturale” e “artificiale” trova1 un suo superamento sintetico nella figura divisiva e insieme inclusiva del cyborg: immagine di un’umanità (o post-umanità) che unisce in sé quegli elementi tradizionalmente considerati come “naturali”, come il corpo e le sue funzioni biologiche (da cui la desinenza inglese “-org” che sta per organism), ed elementi “artificiali” o tecnologici (nella radice “cyb-” di cybernetic). Questa figura è tuttavia lontana dal poter essere relegata esclusivamente all’ambito dell’immaginario fantascientifico, letterario e audiovisivo, e ha avuto particolare successo soprattutto nell’ultimo decennio del secolo scorso, divenendo emblema teoretico e concetto cardine del pensiero della filosofa, femminista ed ecologista americana Donna Haraway. Il cyborg, insieme luogo di costruzione di immaginari utopici e distopici, è infatti per l’autrice anche figura privilegiata dalla quale attingere per pensare un superamento emancipatorio dei tradizionali dualismi di natura/cultura, mente/corpo, soggetto/oggetto, sé/altro, naturale/artificiale, maschio/femmina, animali umani/animali non umani. Questi binomi per Haraway sono infatti sempre stati “funzionali alle logiche e alle pratiche del dominio sulle donne, la gente di colore, la natura, i lavoratori, gli animali”2 e per questo la figura del cyborg, incarnando l’impossibilità di discernimento tra tecnico ed organico, macchina ed umano, lancia una sfida alle tendenze dualistiche proprie della tradizione filosofica occidentale. 

Per Haraway il cyborg non va pensato come una chance da accogliere in una logica di trasformazione futura del corpo umano, esso è invece già attuale e già si presenta a noi come possibilità di pensarci come esseri “ibridi, mosaici, chimere”3, creature mostruose e ironiche, e per questo dotate di potenziale rivoluzionario. L’obiettivo non è un elogio acritico delle possibilità che la tecnologia ci offre ma, piuttosto, una presa di consapevolezza sugli effetti coercitivi che essa già produce, nell’ottica e nel proposito di un loro superamento. La figura del cyborg trova la sua forza proprio in quanto cortocircuita la possibilità di essere ricompreso in (e dunque anche di produrre) “teorie universali e totalizzanti”4, dualistiche e per questo anche e sempre viziate dalla tendenza ad abbracciare incondizionatamente o rifiutare completamente l’elemento tecnologico. L’unica via di uscita dalle logiche di dominio che spesso trovano nella tecnologia una preziosa alleata, non è dunque per la filosofa un rifiuto totale di esse ma è invece l’assunzione di una prospettiva sia epistemologicamente che politicamente eccentrica, capace di prendersi cura di ciò che si presenta come non conforme e non categorizzabile proprio partendo da ciò che, per sua “natura” si presenta come già artificialmente ibridato. A distanza di quasi quarant’anni dalla pubblicazione del saggio A Cyborg Manifesto facciamo esperienza di una sempre maggior permeabilità tra spazi quotidiani e tecnologie, e il rapporto simbiotico tra essere umano e macchina sembra aver perso in parte le sue potenzialità ironiche ed emancipatorie. Oggi questo rapporto, inverandosi come relazione sì fluida, ma anche inconsapevole ed irriflessa, ci porta dunque alla necessità di dedicarvi rinnovate attenzioni e la figura del cyborg si presenta a noi nuovamente foriera di trasformate suggestioni.

Note

  1. D. J. Haraway (1985), Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo,
    a cura di L. Borghi, Feltrinelli, 1995, p. 79.
  2. Ivi, p. 78.
  3. Ivi, p. 79.
  4. Ivi, p. 84.

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