di Roberto Papini Tivitavi e Kea Tonetti

Nel 1959 il danzatore Tatsumi Hijikata presentò in un festival giapponese Kinjiki (Colori proibiti), basato sulla novella di Yukio Mishima, aveva per argomento l’omosessualità, lo spettacolo venne censurato e Hijikata bandito dal festival. Questo fu l’inizio del Butoh: la danza delle tenebre, intesa come oscurità e luogo del mistero, che avviene in un tempo circolare, eterno. Una danza “espressionista” dove il danzatore si fa corpo vuoto per esprimere una condizione interiore. Nata dopo l’orrore della guerra, finita con le due bombe atomiche sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki, come arte di protesta che mostrasse temi scomodi e denudasse il danzatore attraverso la verità del corpo. Il Giappone del dopoguerra, in una condizione di povertà estrema e dopo secoli di isolamento culturale, era sottoposto ad una influenza occidentale che stava dissolvendo rapidamente le radici e la cultura di un popolo. La reazione degli artisti dell’epoca fu la sperimentazione di rottura del contemporaneo, come i loro omologhi europei e americani, e la ricerca di una identità nella cultura animista della magia naturale, nelle tradizioni teatrali del Noh e del Kabuki. La danza Butoh, come arte degli ultimi, rinnegata all’inizio nella sua stessa patria, trovò una casa in Europa, a Parigi e in Francia, ma soprattutto in Germania, a Berlino, città simbolo delle divisioni e delle ferite della guerra. Una terra di nessuno, una periferia del mondo al centro dell’Europa. Uno dei luoghi più fertili per artisti e movimenti underground dell’epoca. Kazuo Ohno, l’altro fondatore della danza Butoh, nel 1980 presentò Admiring La Argentina, a Nancy, riscuotendo un grande successo. Diceva: “…se metti la bellezza di quel fiore e l’emozione che esso evoca nel tuo corpo morto, allora il fiore che crei sarà vero e unico e il pubblico ne sarà commosso”, se nella tua danza poni la tua anima nuda al centro della scena, lo spettatore non potrà rimanere indifferente. Nel Butoh il danzatore deve fare vuoto per abbracciare, con la sua danza, temi universali come: la vita e la morte, il fiorire e lo sfiorire, la guerra, l’essere bambino o vecchio, le forze della natura. L’essenza non è semplicemente muoversi ma essere costantemente in contatto con l’anima anche stando fermi.  Il danzatore si mostra nella sua nudità, ricoperto di bianco come uno spirito che cammina nel mondo portando un messaggio che genera un soffio vitale risvegliando l’anima dell’osservatore in una catarsi, di purificazione collettiva. Non si può assistere ad una performance di danza Butoh e rimanere inerti.  In Yo Soy Azul, ispirato a Bluebird di Bukowski, corpo e anima si denudano. Azul incontra la sofferenza, la rabbia, le delusioni, i desideri, il piacere e gli attaccamenti. Cerca un abito e un corpo nel quale identificarsi, prova differenti volti, ma senza mai trovare pace perché in realtà vuole mostrarsi per quello che è. Può un’anima mostrarsi nuda nel centro del mondo senza compromettersi e senza rischiare di svanire lei stessa? Mostrare la cruda verità dell’esistenza, può farci perdere tutte le maschere, forse anche quelle necessarie per vivere. Nelle nostre performance suono e movimento si influenzano a vicenda seguendo una struttura, ma tenendo sempre aperta la possibilità di un’intuizione improvvisa. I suoni, possono evocare, descrivere o creare luoghi e entità. In Ātman, il Sé, lo Spirito, la pura Coscienza che si proietta nel mondo, è il soffio che dà la vita. L’assoluto in noi, al di fuori dallo spazio-tempo. Colui che trova il Sé, abbraccia tutti i mondi, con la sua sola presenza l’Ātman dà vita al tutto e il tutto si riassorbe nell’Ātman. Un atto d’amore, il respiro che si fa anima. Libero, vibrante e al contempo immobile e silenzioso, il corpo diviene vuoto e si lascia danzare, la musica, permette al silenzio di penetrare i suoni. Le memorie, le emozioni del pubblico si manifestano, i confini spazio-temporali si aprono nel momento presente.

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Yo Soy Azul, produzione Compagniakha 2013, fotografia di Anastasya Stolyarov.

Yo Soy Azul, produzione Compagniakha 2013, fotografia di Anastasya Stolyarov.

Immagine in evidenza: Ātman, produzione Compagniakha 2016, fotografia di Sara Meliti.

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