Note di una logorroica

di Giorgia Alderuccio

Io parlo tanto, mi piace. Amo le parole perché amo mettere in ordine. Amo la voce, suono regolatore di deliri e agonie innominabili, ritmo che scandisce flussi demoniaci. Ho fatto una testa con l’argilla l’altro giorno, per la prima volta. È inebriante il processo di dar forma, ha a che fare con la sopravvivenza.
A volte si dice che chi parla tanto lo faccia per horror vacui. Ma non è paura del vuoto, il vuoto non esiste mai davvero. Il silenzio non è vuoto, è rumore semmai, assenza di forma definita. Assenza di una voce, di una linea – anche curva, contorta, annodata, ma comunque una linea, un solco entro cui camminare.
Io parlo tanto, mi piace. Un pomeriggio di quindici anni fa, però, decisi per la prima volta di affondare nel silenzio. Tra le gabbie che percepivo, il linguaggio era l’ennesima. Ecco, quella volta io non ebbi paura dell’assenza di voce. Ebbi il coraggio di de-plasmare la mia testa d’argilla, di farla regredire a massa amorfa.
Io parlo tanto, mi piace. Quella volta però è stata indimenticabile perché ho capito di poter sopravvivere ai miei mostri. Ma, soprattutto, che anche il resistere a dar forma ha a che fare con la sopravvivenza. Non si può sopravvivere formalizzando costantemente i mostri, incapsulandoli in segmenti di voce. Anche quando si vuol rimanere il più coerenti possibili, quando si cercano le parole più adatte, c’è della violenza: non ci stanno, no, non è possibile che ci stiano, per cui per farceli entrare li snaturiamo, ne prendiamo un pezzetto o un surrogato formale, un rappresentante. Non ci stanno, tutti interi, dentro le parole. Si sgretolano quando lo facciamo, si mutilano, si addolciscono anche a volte, tutte quelle volte che la più stravolgente delle parole non è comunque abbastanza stravolgente. I mostri non sanno cosa sia la forma. Hanno l’essenza dei primordi, del pre-umano, della pre-coscienza, del pre-linguaggio, del pre-veglia, del pre-giudizio, del pre-civile. I mostri e la voce non si capiscono fino in fondo. Si corteggiano, si affascinano. Si sfiorano, si leccano o si graffiano. Da questa libidine, dallo scarto necessario che ne scaturisce, dal tentativo necessariamente un po’ mancato e dalla scolatura a lato, dal tratto deciso che si crepa inevitabilmente, da questo amore che non può possedersi, escono a volte le migliori opere d’arte.
Io parlo tanto, mi piace. Ma bisogna avere il coraggio di familiarizzare col buio, di naufragare nell’assenza di struttura. Grazie a quella volta, io sono sopravvissuta – sì, anche il silenzio ha a che fare con la sopravvivenza. Non che adesso mi venga semplice. È sempre difficile accettare di non avere il pieno controllo, affacciarsi e restare nelle vertigini. Affacciarsi e riuscire a chiamare umano qualcosa che, da umani, non si riesce a delineare. Eppure, anche questa foschia, questo sfocato mare senza orizzonte, ci appartiene.
Io parlo tanto, mi piace. Però da quel momento il mio quotidiano dar forma si è accorto dell’illusione, e non solo i mostri ma la realtà tutta sfugge da ogni lato. Io non lo sapevo ancora, ma è morta ogni pretesa di coincidenza tra il mondo e la mia voce.
Io parlo tanto, mi piace. E da allora mi piace ancora di più. La voce si porta dietro un trauma – quello di ogni caduta divina, di ogni pretesa di onnipotenza ferita, di ogni oggettività e certezza franata, irrimediabilmente disintegrata – ma dal disincanto e dalla consapevolezza dei suoi limiti si è fatta forte dei suoi poteri magici. Sta, nel mezzo, attratta da quell’indicibile che, imperterrita, continua a voler dire.

immagine in evidenza: Giorgia Alderuccio, Mute, 2022

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