testo e immagine di Pier Luigi Capucci

“Forse è giunto il momento di ripensare in maniera più ampia, non limitatamente antropocentrica, il concetto di artificiale, così spesso tirato in ballo e considerato negativamente (e oggi più che mai con le ultime tecnologie). L’artificiale viene generalmente definito come quell’insieme di tecniche, teorie e artefatti realizzati dall’uomo nell’interazione col proprio ambiente”1.

Questa frase costituiva una parte del mio intervento, intitolato Arte e tecnoscienze. Riflessioni teoriche e tematiche, al Seminario Internazionale Tecnoscienze, Intuizione Artistica e Ambiente Artificiale, promosso dalla Città di Torino in collaborazione con Ars Technica e Extramuseum nell’Ottobre 1993. Uno dei primi eventi in Italia di confronto tra cultura umanistica e cultura scientifica, che aveva tra i mentori Piero Gilardi, Franco Torriani e Claude Faure, e tra i partecipanti il grande fisico Tullio Regge. Il mio intervento proseguiva rilevando che se per “artificiale” si intende un costrutto, di qualsivoglia natura, realizzato in un certo modo per un determinato scopo, allora l’artificiale è prerogativa di ogni specie vivente: l’uccello che costruisce il nido, la termite che edifica il termitaio, il ragno che fabbrica la ragnatela, la marmotta che costruisce la tana… generano costrutti utilizzando risorse dell’ambiente in cui vivono. L’artificiale è la traccia, il segno, il risultato dell’interazione di ogni essere vivente con il mondo che lo circonda. Dunque, “naturale” e “artificiale” non vanno considerati come contrapposti e irriducibili, non sono opposizioni ma complementarietà: l’artificiale si fonda sulla trasformazione del naturale e il naturale fonda anche sull’artificiale la propria capacità operativa, il successo della propria effettualità. L’artificiale è una modalità di evoluzione del naturale vivente e insieme una testimonianza – una memoria – della vitalità di tale evoluzione. Segnala l’assunzione e l’inquadramento dell’esistente fenomenico da parte del vivente all’interno delle griglie della propria matrice biologica e della propria esperienza culturale. L’artificiale e i meccanismi della sua attuazione, nella loro enorme varietà, pervadono tutto il vivente. In questa prospettiva concetti come quelli di “vita”, “intelligenza”, “creatività” si arricchiscono di nuove dimensioni. La “creatività” non è solo una peculiarità umana ma possiede una fondazione generale, biologica. L’“intelligenza” simbolica, tipica degli umani, è solo una possibile forma di intelligenza. Dunque, l’“artificiale” è quel naturale peculiare della nostra specie che viene prodotto dall’interazione con l’ambiente e la sua assunzione come peculiarità antropica è solo una convenzione. Tuttavia, grazie alle scienze e alle tecnologie, l’artificiale umano presenta delle caratteristiche peculiari. Per quantità, perché l’impatto sull’ambiente è così esteso che mette a repentaglio persino la sopravvivenza della nostra specie oltre a quella di numerose altre. Per qualità, perché può generare esiti paragonabili a calamità naturali e modificare profondamente e rapidamente i complessi equilibri – climatici, atmosferici, biologici… – del Pianeta. Per varietà, perché le conoscenze e le possibilità di impatto sono così varie, diversificate e approfondite che possono agire su uno spettro molto ampio di situazioni, con un impatto rilevante in molti settori aggravato dal fatto che l’ambiente naturale è un continuum profondamente interconnesso. L’evoluzione culturale ha reso la specie umana un membro anomalo del Pianeta, l’ultimo ramo rimasto del genere Homo, conquistatore di ogni ambiente, sfruttatore di un’unica immensa nicchia ecologica di cui sta dissipando, intensivamente, le risorse. Oggi è possibile operare sulle basi della vita, sulla sua simulazione, manipolazione o ri-creazione, lasciando intravedere orizzonti oltre l’antropico, un’evoluzione della cultura umana al di là delle sue stesse fondamenta biologiche. L’umanità pervade della vita i suoi artefatti, la dimensione naturale va ben oltre la visione oleografica in cui spesso viene confinata, diviene l’orizzonte degli eventi dell’esistente.

“Con tutte le tecnologie la nostra cultura non fa che interpretare, produrre, riprodurre e trasmettere la Natura. Noi siamo natura e non possiamo che generare natura, anche gli oggetti e gli artefatti a cui conferiamo “intelligenza”, “vita”, lo sono. L’esistente genera l’esistente, e questo esistente è sempre natura. Non c’è che natura. A questa natura noi apparteniamo e insieme sfuggiamo, essa ci rispecchia e nel contempo si sottrae. Siamo parte di un’avventura a cui è impossibile rubare il nostro destino o non partecipare. […] Se la nostra cultura non può più sostenere la convinzione della sua estraneità e superiorità, può guardarsi intorno con uno sguardo più lungo”2.

La reale “bellezza” della natura e del vivente non risiede nella loro apparenza contemplativa, o nella loro sostanza materiale, ma nella loro operatività. L’arte diviene uno strumento essenziale per interpretare il mondo, per affrontare le complesse dinamiche dell’ambiente, l’emergenza climatica, il rapporto col vivente, l’ipertrofia dell’artificiale umano… L’arte come una sorta di filosofia della contemporaneità, capace di aprire orizzonti complessi e transdisciplinari, attenta alla dimensione etica delle scienze e delle tecnologie, alle trasformazioni sociali. Non quell’arte che parla solo di sé, o quella che piange il presente e guarda solo al passato, ma quella che genera delle visioni del mondo, che attiva il futuro. Che guarda al di là dell’umanesimo.

Note

1. P. L. Capucci, Arte e tecnoscienze. Riflessioni teoriche e tematiche in ArsLab. I sensi del virtuale, a cura di B. Piras, Fabbri Editori, 1995, pp. 94–102.

2. P. L. Capucci, Tecnologie del vivente, in Futuri immaginari, M. Morcellini, M. Sorice, Logica University Press, 1998, p. 40.

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