Che cosa vuol dire “tecnologico per natura”? Un (brevissimo) viaggio al confine tra naturale e artificiale

di Giulia Piredda

Che cosa è naturale e che cosa è artificiale? Intorno a queste domande si muove molta filosofia della tecnologia ma anche filosofia della mente, visto l’intimo legame tra mente e tecnologia (Clowes et al. 2021; Fasoli, Piredda 2022). Per quanto a livello intuitivo sembri semplice definire cosa è naturale e cosa è frutto di artificio, la distinzione tra i due domini non è così scontata e in questo contributo vorrei provare a mostrarlo offrendo qualche riflessione sul confine tra naturale e artificiale, biologia e tecnologia. Nella filosofia della mente e della tecnologia si è diffusa negli ultimi decenni l’espressione secondo cui l’essere umano sarebbe un “cyborg naturale” o tecnologico per natura (Clark 2003). L’espressione è interessante perché mette insieme per l’appunto natura e tecnologia, naturale e artificiale, inteso come il prodotto della tecnologia. Cosa vuol dire esattamente questa espressione, al di là del fatto che “suona bene” e che ci sembra cogliere qualcosa di centrale della nostra natura? È davvero possibile scindere il contributo della natura e quello della tecnologia o dovremmo rinunciare a fare questa distinzione nel nostro mondo ormai “contaminato” di tecnologia? Dunque potremmo dire che l’essere umano è “artificiale per natura”? In un certo senso sì. Vediamo perché.

Guardando un bel panorama di campagna, delle sinuose colline toscane, potremmo sentirci “immersi nella natura”, perdendo il nostro sguardo nelle varie sfumature di verde e marrone che offre la visione di un bosco. A uno sguardo più attento, però, ci accorgiamo che il bosco che stiamo guardando non è che un quadrato ben delimitato, accanto al quale vediamo altri quadrati coltivati a vite, tipici per i loro filari regolari che dall’alto sembrano le righe dei quaderni. Ancora avanti, e vediamo un campo di granoturco, con le pannocchie pronte per essere raccolte, poi ancora e scorgiamo una coltivazione di carciofi, di colza, di girasoli. Insomma, nel mondo di oggi è davvero difficile trovare un pezzo di terra che non sia stato “colonizzato” dall’azione umana. Da una attività che tendiamo ancora ad attribuire al mondo “naturale”, ma che in verità rappresenta una delle azioni tecniche umane per eccellenza: l’agricoltura. L’agricoltura è forse il primo passo di espansione dell’azione umana sulla Terra, di sfruttamento delle risorse attraverso l’uso di attrezzi (tecnologici, artificiali) e di “ingegnerizzazione” dell’ambiente esterno per i propri scopi. Non dico questo naturalmente con l’intento di “demonizzare” il sistema agricolo: ci mancherebbe. Dico però che l’aura di naturalità che è tipicamente associata a questa attività è piuttosto fuori strada e che quello che alcuni cittadini romantici potrebbero interpretare come un “ritorno alla natura” si rivela poi piuttosto per quello che è: un ricorso alla tecnica per poter tirare fuori da terreni talvolta incolti qualcosa da mettere sotto ai denti. L’allevamento – come tristemente sappiamo – non è da meno, e gli animali allevati vengono spesso trattati più come oggetti che come parte del patrimonio naturale. Un caso a parte è rappresentato dagli animali domestici, considerati animali da compagnia e appositamente selezionati e progettati per questo scopo. Da un lato sarebbe certamente intuitivo considerare gli animali non umani, e anche l’essere umano, come oggetti naturali, prodotti dalla biologia. A ben guardare, però, la manipolazione umana interviene anche lì: una persona operata a cui viene messa una protesi ortopedica è ancora solo un oggetto naturale? Gli animali domestici, sottoposti alla selezione artificiale alla ricerca di caratteristiche funzionali alla coabitazione con gli esseri umani nei loro ambienti, sono ancora soltanto oggetti naturali? In generale si contrappone il mondo degli artefatti, prodotti dell’azione umana (o dovremmo dire del lavoro?), da quello degli oggetti naturali. Ma se gli oggetti naturali sono manipolati ed è difficile considerarli prodotti “incontaminati” della natura, ha senso accogliere la proposta di far cadere lo steccato tra natura e cultura e parlare piuttosto di “artefatti biologici”, organismi biologici frutto di una progettazione umana, per gli animali domestici e probabilmente anche per noi esseri umani (Sperber 2007). Ma se l’essere umano è tecnologico per natura, che statuto hanno gli altri animali? Anche gli animali non umani adattano e personalizzano l’ambiente in modi che convengono alla conduzione della loro vita, creando nicchie ecologiche che corrispondono ai loro bisogni. Talvolta facendo ciò costruiscono o producono oggetti che definiremmo tecnologici: le dighe, i nidi, le ragnatele sono oggetti che testimoniano una complessità e senz’altro sono prodotti “per natura”, senza bisogno di studi o istruzioni, al contrario, per esempio delle nostre opere architettoniche come palazzi, ponti o industrie. Dunque anche gli animali non umani sono “tecnologici per natura”? Forse lo sono in un senso ancora più letterale dell’espressione, mentre nel nostro essere “tecnologici per natura” c’è anche tanta tecnologia intesa come applicazione della scienza, della conoscenza, alla realtà: tanta tecnica e tanto lavoro, intellettuale e manuale. 

Bibliografia

A. Clark , Natural-Born Cyborgs. Minds, Technologies, and the Future of Human Intelligence,
Oxford University Press, 2003.
R.W. Clowes, K. Gärtner, I. Hipólito, The Mind-Technology Problem. Investigating Minds, Selves and 21st
Century Artefacts, Springer-Verlag, 2021.
M. Fasoli, G. Piredda, Filosofia, tecnologia e scienze della mente, Il Mulino, 2022.
D. Sperber, Seedless grapes: Nature and culture, in E.E. Margolis e S.E. Laurence, Creations of the mind:
Theories of artifacts and their representation, Clarendon Press, pp. 124-137, 2007.

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