Il silenzio come dramma dell’incomunicabilità

Café Müller di Pina Bausch

di Andrea Papa

Avvolta dal buio e dal silenzio, una sagoma esile, muta, entra sul palco. Urta le sedie e percorre la scena ad occhi chiusi fiancheggiando una parete. Entrano altre figure. Una di esse, vestita in bianco come la prima avanza verso il pubblico. Ha i piedi nudi, ha gli occhi chiusi, è muta, sta per danzare.
Così inizia Cafè Müller, la pièce più famosa della coreografa tedesca Pina Bausch.

Originariamente, lo spettacolo era parte di una serata che portava in scena, in uno stesso ambiente (un bar), quattro spettacoli, indipendenti l’uno dall’altro, di quattro coreografi diversi: Pina Bausch, Gerhard Bohner, Gigi Caciuleanu e Hans Pop.
Il successo della coreografia della Bausch ha portato questo breve spettacolo (circa 40 minuti) in tutto il mondo, stabilendo la raggiunta maturità artistica della coreografa, all’epoca trentottenne. Cafè Müller introduce il periodo delle coreografie originali della Bausch: dalla fine degli anni Settanta, infatti, i suoi lavori acquisiscono un taglio più personale, caricandosi di una forma più tragica e contemporanea. Questa visione è espressa nella sala spettrale di Cafè Müller, testimone di drammi d’amore e incomprensione in cui i protagonisti si cercano e si sfuggono senza riuscire a comunicare se non con gesti ripetitivi e frenetici.

La scena si svolge su un palcoscenico disseminato di sedie posizionate in modo casuale su tutto il palco. C’è un’apertura dietro una quinta, a sinistra, che conduce a una porta girevole e altre due uscite, una per ogni lato. Le musiche presenti sono tre composizioni di Henry Purcell. Scene e costumi di Rolf Borzik (che prenderà parte come danzatore alle prime messe in scena dell’opera).
Sono presenti sei personaggi: tre donne, interpretate da Pina Bausch, Malou Airaudo e Nazareth Panadero, e tre uomini, Dominique Mercy, Jan Minarik e Rolf Borzik. Due degli uomini (Minarik e Borzik) indossano un completo elegante, il terzo (Mercy) indossa una camicia bianca larga infilata nei pantaloni. Due delle donne (la Airaudo e la Bausch) indossano lunghi abiti bianchi e danzano a piedi nudi, la terza (Nazareth Panadero), con una parrucca di capelli rossi e ricci, indossa un vestito azzurro, un soprabito nero e i tacchi. Anche Borzik indossa scarpe e occhiali. Questi ultimi sembrano appartenere ad un universo concreto, palpabile, reale. Le altre due donne e gli altri due uomini sono parte di una realtà più onirica: ballano a piedi nudi, recitano tutto il tempo con gli occhi socchiusi, corrono sul palco cosparso di sedie mentre i personaggi “reali” si precipitano intorno a loro spostando i mobili creando confusione e un gran frastuono. È un’azione, quella presente sul palco, che mostra tratti angosciosi legati ad una rappresentazione grottesca e quasi fastidiosa dei fatti. La Bausch, infatti, inizia ad utilizzare una precisa cifra stilistica nelle sue coreografie, per denunciare una situazione sbagliata: attraverso una ricerca sui movimenti, svolta insieme ai suoi ballerini, Pina Bausch trova il gesto con cui si può comunicare un fatto e fa ripetere questo gesto a uno o più danzattori, a volte fino allo sfinimento (del ballerino e del pubblico sempre più coinvolto). Esempio chiave può essere l’abbraccio ripetuto da Malou Airaudo (la ballerina col vestito bianco) e Dominique Mercy (il ballerino con la camicia).

Le braccia e le teste dei due vengono continuamente mossi e sistemati da un terzo uomo (Jan Minarik), infine la donna viene adagiata dallo stesso sulle braccia del ballerino. Quest’ultimo però non riesce a trattenerla facendola cadere al suolo. Lei si rialza e lo stringe ancora. Il terzo uomo allora risistema le due figure ma scena si ripete, ancora e poi ancora, sempre più velocemente, finché il terzo uomo non esce dalla scena e i movimenti diventano automatici, come se fossero memorizzati da due automi, piuttosto che da due esseri umani.
Altri momenti violenti e ripetuti si alternano sul palco a frammenti di danza: la donna dai capelli rossi che si agita preoccupata e confusa lungo la scena, l’uomo con gli occhiali che sposta le sedie, il ballerino che fa roteare la danzatrice dell’abbraccio, Pina Bausch che sbatte contro il muro e avanza a braccia aperte, quasi come un fantasma, c’è perfino un momento in cui i due ballerini dell’abbraccio si tengono per la vita lanciando, ora uno, ora l’altra, il partner contro il muro o contro una finestra della scena. Questa ripetitività può intendersi come una tortura che libera angoscia e sfinimento in tutta la sala.
A livello registico è da notare la figura esile e fantasmatica, interpretata dalla stessa Bausch, che si aggira nella scena. A volte avanza verso il pubblico a braccia aperte e urtando le sedie, altre è distesa per terra, poi si perde dentro la porta girevole. È interessante il fatto che compie tutti questi movimenti con gli occhi socchiusi e lo sguardo rivolto verso il basso, un particolare che ricorre anche nelle altre figure “oniriche” dello spettacolo che pare siano personaggi sonnambuli, quasi in trance. La vista limitata causa il suo continuo urtare sedie, tavoli, muri dando un senso di insicurezza e imprevedibilità al pubblico che assimila sconforto dal clima poco rassicurante e buio che la danzatrice affronta. Il messaggio contro la violenza, tangibile anche in Cafè Müller, è sempre molto presente nell’opera della Bausch. Quando la mostra al pubblico, violenta e cruda, a volte denigratoria, la condanna automaticamente. Allo stesso modo il pubblico non può fare altro che condannarla. Il contatto è una parte fondamentale nelle coreografie bauschane, un contatto che, quando è violento, è capace di trasmettere al pubblico una visione brusca e attiva dello stück – così la coreografa chiamava i suoi spettacoli.

L’impatto emotivo che la Bausch trasmette al pubblico con Cafe Müller è molto diverso, per certi versi, dalle sensazioni provocate da altri spettacoli. L’oscurità che caratterizza la scena, gli ambienti spettrali, i rumori forti, ripetuti e violenti non possono che sottolineare un silenzio tanto irritante che è necessario coprirlo in qualche modo, nasconderlo, colmarlo. Ma i gesti, i pochi versi e persino la musica non riescono. Questo silenzio pesante non è altro che un sintomo di un rapporto tra esseri umani che si è irrimediabilmente rotto. Non per nulla Pina Bausch, in questo spettacolo, rappresenta il dramma dell’incomunicabilità. Chiarisce l’impossibilità di un rapporto profondo tra le persone che continuano a sfuggirsi.
Da studioso della scenografia teatrale, mi sono spesso interrogato sul valore politico della scenografia e sul suo adattamento in certe situazioni, tra cui cosa riesce a trasmettere in termini di sensazioni. La mia non è certamente una ricerca finita. È disseminata di incognite e passi falsi, ma credo di aver trovato alcuni punti fermi. Uno tra tutti è il limite entro il quale si può agire per stravolgere una scenografia: per quanto sia giusto rinnovare e cambiare le scene di uno spettacolo (spesso in funzione critica verso una situazione), è giusto che certi impianti restino così come sono stati concepiti dallo scenografo o dal regista originali. La scenografia è funzionale al testo, in questo caso. Ogni cosa in questa scena contribuisce ad amplificare la tangibile e orrida quiete che la Bausch ha cercato di comunicare al pubblico, perfino il bar, luogo di aggregazione e socialità per eccellenza, ha un suo valore. Ambientare uno spettacolo del genere in un auditorium o in un teatro sarebbe stata la stessa cosa? Suppongo di no.
Considerando l’intero percorso artistico della Bausch coreografa e ideatrice di spettacoli insieme alle caratteristiche del Teatrodanza, notiamo sempre una particolare attenzione al suono, alla musica e alla voce, a volte anche alle varie miscelazioni tra queste. In Cafè Müller, questi tre elementi viaggiano su binari singoli. Anzi, la voce è omessa, sostituita da respiri affannosi, lamenti quasi accennati e suoni violenti. Il tutto è un insieme di dissonanze che non forniscono una soluzione al problema o trasmettono valori educativi – il che rende il teatrodanza di Pina Bausch lontano dal teatro politico. Lo spettacolo urla al pubblico: “guardate, questo dramma si sta abbattendo sul nostro modo di vivere: farete qualcosa per evitarlo?”.
Sostanzialmente gli spettacoli della Bausch appartenenti a questo secondo periodo sono quelli più pessimistici. Già negli anni Settanta, come fecero i più grandi pensatori del ‘900, anticipava un dramma della società che oggi stiamo vivendo, 50 anni dopo. Chi aveva le competenze e il potere non ha fatto niente per concretizzare le soluzioni che avrebbero posto un punto al problema, nessuno è riuscito a creare una voce forte abbastanza da sovrastare il silenzio, fino ad ora.
Quindi, che ne sarà di noi e della nostra voce?

Tanztheater Wuppertal, Café Müller. BAM Production. Fotografie di Stephanie Berger.

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