Memorie del silenzio nella ricerca teatrale

Remondi e Caporossi, Marce-lì Antunez Roca, BeAnotherLab, Balletto Teatro Torino, Elio Germano, e altri.

di Antonio Pizzo

Sul finire degli anni Ottanta, i miei esordi nello studio del teatro coincisero con l’avvicinamento al lavoro di Claudio Remondi e Riccardo Caporossi: due artisti del teatro che hanno segnato, con la loro lunga carriera, uno spazio originale nella sperimentazione italiana. Ancora studente, ebbi l’opportunità di osservarli al lavoro quando provavano Coro, uno dei loro capolavori prodotto dal Festival di Santarcangelo nel 1990. Mentre guidavano il gruppo di giovani attori e attrici, li scoprivo impegnati in un’operazione di sottrazione, in una pedagogia del silenzio dove lo sforzo era di togliere tutto per lasciar emergere il ricco intreccio di emozioni minime. E quando vidi lo spettacolo allo Sferisterio fu come una epifania, perché per la prima volta osservavo una serie di azioni, tutte mute, delle quali mi sembrava di cogliere i dialoghi e i silenzi. Nella lunga scena iniziale gli attori e le attrici si muovevano all’interno di un ampio spazio scenico quadrato e individuato solo dall’illuminazione; entravano ed uscivano da soli o in gruppi, si incontravano e si separavano, depositando di volta in volta alcune valige al centro dello spazio, fino a costruire un muro, una sorta di skenè davanti alla quale si sarebbe svolta la seconda parte dello spettacolo. Ogni incontro e ogni separazione era una storia diversa; l’azione seguiva un copione dettagliatissimo, privo di parole ma pieno di voci che si materializzavano direttamente nelle menti di chi osservava. In quell’occasione imparai che la voce non è solo il frutto della vibrazione delle corde vocali, e che il silenzio è qualcosa di più dell’assenza di suono. Sono entrambi manifestazioni della materialità che costituisce la performance.
Nei decenni successivi la ricerca accademica mi ha portato a seguire lo sviluppo della performance digitale, o meglio di tutta quella sperimentazione che, dagli anni Novanta in poi ha inteso mettere a frutto le potenzialità dei media digitali e degli algoritmi. Sebbene tanta parte di queste produzioni siano state affatto silenziose, anzi costruite su una proliferazione del tessuto sonoro, la lezione del silenzio sviluppata da una parte della sperimentazione performativa dagli anni Sessanta in avanti ha mantenuto la sua centralità. Le performance di Stelarc erano quasi interamente legate all’azione delle tecnologie sul corpo; il famoso Epizoo (1994) di Marcel·lì Antúnez Roca era privo della voce del performer. La tecnologia invadeva a tal punto il corpo umano da lasciarlo privo di parole. Questa sorta di afasia ha dato infatti il titolo del successivo spettacolo di Marcel·lì Antúnez Roca che però, in quella occasione, la manifestava con una sovrapproduzione di materiali sonori. In Afasia (1998), e in alcuni spettacoli successivi, l’artista catalano ha costruito una vera e propria drammaturgia dell’urlo, costituendo una ricerca di senso nell’universo tecnologico proprio a partire dalla produzione inarticolata di suono. Marcel·lì Antúnez Roca è stato un altro incontro importante perché la sua carriera ha qualcosa di molto singolare. Dopo aver lasciato la Fura Del Baus, si è impegnato in un percorso che riconquistasse la voce umana all’interno di un universo contemporaneo nel quale era stata condannata al silenzio dalla sovrabbondanza tecnologica.
Il Novecento teatrale ci ha insegnato che la dialettica voce/silenzio è fondamentale all’arte scenica perché costituisce la materialità dello spazio, la rende percepibile in quanto elemento dinamico nell’azione. E così anche quegli spettacoli con un alto contenuto mediale fanno i conti con questo principio e se ne servono per costituire la propria presenza. Un video muto sulla scena teatrale sarà sempre un’azione performativa al contrario dello schermo televisivo nel nostro salotto di casa.
Anche nei nuovi orizzonti della virtualità e della realtà aumentata queste dinamiche mostrano il loro valore in quanto attivatori di presenza.
Recentemente ho partecipato a una delle installazioni prodotte da BeAnotherLab di Barcellona. Invitati a Torino dal nostro progetto Officine Sintetiche, hanno presentato nel 2021 il loro The Machine to Be Another. Si tratta di un’installazione in cui due partecipanti indossano visori di realtà virtuale sui quali sono montate anche due videocamere 360°. I due siedono uno di fronte all’altro e seguono una serie di istruzioni che gli operatori gli forniscono mediante il contatto fisico. Ogni partecipante vede nel visore ciò che in diretta è ripreso dalla telecamera dell’altro. La sensazione generale è di essere l’altro e l’azione culmina con un abbraccio in cui ognuno ha sensazione di essere un altro e di abbracciare se stesso. L’installazione non prevede parole, non c’è dialogo, ma quel silenzio è pieno di senso; anzi mentre gli operatori ci guidano a muoverci in sincronia, si crea un vero e proprio dialogo dei due corpi che si scoprono, si sintonizzano, si parlano. In quel mondo, reale e virtuale allo stesso tempo, ho avuto di nuovo la sensazione che voci e silenzi si alternassero senza che ci fosse alcuna produzione verbale.
Anche in un recente studio/spettacolo prodotto nel 2022 dal Balletto Teatro Torino, Tiny Uppercase. Il nostro senso nascosto, ho indossato i visori per svolgere un’esperienza multisensoriale tra ambienti in CG, video 360° in diretta e registrati, insieme all’azione dal vivo dei/delle performer. E anche in questo caso l’assenza di un tessuto verbale sembra aver materializzato una voce interiore, potente, che legava i partecipanti con coloro che danzavano.
Altri casi in cui ho indossato questo tipo di visori per eventi performativi e di spettacolo sono stati caratterizzati dalla sovrapproduzione sonora e visiva. La coraggiosa sperimentazione di Elio Germano con i suoi due spettacoli teatrali in VR, Segnali d’allarme (2020) e Così è (se vi pare) (2021), indica una nuova via di riproduzione e distribuzione dello spettacolo ma appare meno efficace nella costituzione della materialità della performance, oppure, per dirla in altro modo, non individua nell’effetto di presenza uno dei cardini dell’evento.
Il binomio voce/silenzio non ricalca quello presenza/assenza, anzi i due sono ortogonali tra di loro: la voce può mostrare un’assenza così come il silenzio può diventare il modo più efficace per dare corpo alla presenza.
La recente esperienza della sospensione dello spettacolo dal vivo è stata un ulteriore stimolo a riflettere sulle pratiche sociali e sul sistema economico che regge il nostro teatro. Al silenzio delle sale ha corrisposto spesso un grande rumore sulle piattaforme web nelle quali si è riversata una enorme mole di proposte alternative di spettacolo. Il teatro italiano e i suoi circuiti hanno avuto un improvviso sobbalzo tecnologico invadendo con i propri contenuti tradizionali i canali social, ma, a volte, anche sperimentando soluzioni originali, a volte inedite. Speriamo che queste soluzioni, dagli spettacoli interattivi on line (Sephirot di Alessandro Anglani, del 2021, ad esempio), le performance sulle piattaforme di videoconferenza (come quelle su Zoom), possano continuare a ricevere attenzione così da avere spazio per ulteriori sviluppi. Anche perché queste forme di evento on line suggeriscono che il binomio voce/silenzio è anche un paradigma di comunicazione e scambio con il pubblico. La performance digitale ha infatti spesso indicato una nuova forma di drammaturgia della partecipazione che, pur muovendosi da istanze novecentesche, si apre a prospettive interessanti per i grandi numeri capace di coinvolgere (il breve esperimento Dream della RSC nel 2021 ha avuto circa cinquantamila partecipanti in pochi giorni), e di conseguenza di riflessione politica sui temi che muovono le grandi comunità di ragazze e ragazzi sulle piattaforme social. I Teatri Nazionali che hanno ripreso a presentare testi e autori come beni culturali da proteggere corrono sempre il rischio di dare voce a un mondo sempre meno connesso con ciò che accade al di fuori delle loro porte; forse più silenziosamente tra le maglie dei sistemi di comunicazione social, dietro i milioni di follower dei grandi influencer, potremo magari veder emergere nuovi dialoghi e nuove presenze capaci di intercettare le voci e i silenzi della realtà in cui viviamo.

Immagine in evidenza: Remondi e Caporossi, Coro, 1990, fotografia di Cesare Accetta.

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