di Giovanni Ferrario

Quanto più di realtà, o di essere, abbia una cosa, tanti più attributi le competono

B. Spinoza, Etica, Prop. 9

La prima immagine della Terra proveniente dallo spazio fu realizzata qualche mese dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale dal vettore V-2 n.13 a un’altezza di sessantacinque miglia durante uno dei primi voli suborbitali della storia. Un’immagine sgranata, consumata e incolore che pareva ricordare i drammatici avvenimenti che il pianeta aveva appena vissuto. Ma la più celebre è quella scattata il 7 dicembre 1972 dall’equipaggio dell’Apollo 17. Si trattava della prima fotografia del pianeta completamente illuminato che la NASA classificò col nome di AS17-148-22727 e che gli astronauti chiamarono affettuosamente biglia blu (blue marble). Luigi Ghirri, affascinato da questa fotografia, sosteneva che era l’immagine capace di contenere tutte le immagini. Tuttavia, la biglia blu non comprendeva tutto, infatti escludeva l’equipaggio degli astronauti che avevano scattato la foto e, inoltre, si estrometteva dall’obiettivo tutta l’infinita ricchezza dello spazio brulicante di pianeti e satelliti attorno alla Terra che di questa infinita e unica natura cosmica è una parte. 

Ora, partiamo dal punto cieco della fotografia spaziale. Viste da questa prospettiva siderale, le attività umane somigliano a formicai brulicanti che animano grandi e piccole opere sparse in ogni parte del mondo. Questa immagine ci mostra l’umanità come un nodo rizomatico, un minuscolo punto di raccordo e sviluppo all’interno di un sistema pullulante di relazioni infinite. Ciò ricorda, con le debite differenze, le costruzioni delle formiche, la loro organizzazione sociale, la loro intelligenza. Tuttavia, a differenze dell’essere umano, l’operare di questi insetti ci appare sempre in armonia con i bisogni del nostro ecosistema. In particolare, il formicaio mostra una comunità solidale, dove l’abnegazione e il sacrificio dell’individualismo in funzione del benessere collettivo sono operazioni abituali. La vita delle formiche, ben descritta dagli studi di George J. Romanes, Ludwig Büchner, John Lubbock, August Forel, racconta di una società laboriosa che opera secondo i principi del mutuo appoggio volontario. Prendendo spunto da questi studi, il filosofo anarchico Pëtr Kropotkin affermava che il mutuo appoggio di questi imenotteri, da cui dovremmo imparare, conduceva alla fiducia reciproca come prima condizione del coraggio di una comunità e che l’iniziativa individuale in armonia con la società, quale condizione del progresso intellettivo, fosse un fattore fondamentale e infinitamente più importante rispetto alla lotta reciproca nell’evoluzione del regno animale. La formica prospera senza avere nessuna funzione difensiva e offensiva poiché essa, essendo inserita in una comunità coesa, è raramente sterminata da altri animali e la sua forza si manifesta nel mutuo sostegno e nella fiducia scambievole. Il mutuo appoggio si rivela quindi una legge di natura tanto quanto lo è la lotta reciproca tra le specie sostenuta dal darwinismo evolutivo.

Le formiche ci insegnano che il fiorire della vita umana e non umana ha un valore intrinseco, dato dalla ricchezza e dalla biodiversità di ogni esistenza. Quanto più riusciamo a cogliere il legame che ci unisce agli altri, tanto più ci identifichiamo con loro, così da muoverci con cura e discrezione nel mondo. Siamo nati in una climaticità e storicità che ci appartengono e ci costituiscono come relazioni in continuo cambiamento. Già Platone ci avvertiva nel Teeteto che “niente è in sé e per sé un’unica e medesima cosa, ma tutto diviene in relazione a qualcos’altro […] noi, tanto se siamo, quanto se diventiamo, siamo e diventiamo in relazione, l’uno con l’altro” (160 b). Siamo, quindi, in un ecosistema integrato con infinite relazioni fluide in continua propagazione che si sviluppano in virtù della struttura interna di ciò che chiamiamo natura.

Tale prospettiva suggerisce che gli esseri umani non hanno maggior diritto su altre specie. Non si sta parlando di una generica salvaguardia della natura come ambiente che circonda un individuo, ma di una concezione del mondo e del cosmo dove la natura è considerata il complesso di condizioni che determinano l’esistenza di ogni entità in cui noi siamo un’identità plurale e mutevole e dove ogni differenza non è mai opposizione irriducibile. Possiamo così considerare ogni realtà come insostanziale e impermanente ma particolare nella sua forma potenziale. Siamo una specie che pensa l’ecosistema, una comunità che può scegliere e agire, trasformando il suo sapere in responsabilità individuale e collettiva capace di potenziare il muto appoggio. Se siamo stati capaci di scattare quella foto spaziale del nostro pianeta, possiamo dirci sufficientemente coscienti di appartenere non solo all’ecosistema terreste ma a un più vasto ecosistema cosmico. L’essere umano non abita la natura ma è un modo particolare della natura stessa. Un ecosistema integrato tanto quanto lo sono i batteri, le spugne e le formiche. Formiche che ci parlano da una biglia blu, che raccontano di una fotografia che esige i ricordi incalcolabili di tutti i nomi perduti che le foto testimoniano; di ogni micropolvere cosmica, ogni smarrimento esistenziale, ogni esigenza di gesti, parole e verità. Questa immagine è il luogo di uno scarto tra il ricordo e la speranza, tra il passato di un dualismo meccanicistico e deterministico e la naturalezza e spontaneità dello stare insieme per comprendersi lungo l’immanenza eterna di un tempo mutevole.

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