Come vedono le piante. Gli esperimenti fotografici di Harold Wager e i caleidogrammi del quotidiano
di Paola Mongelli
La nascita della fotografia si fonda su un equivoco strano che ha a che fare con la sua doppia natura di arte meccanica: quello di essere uno strumento preciso e infallibile come una scienza, e insieme inesatto e falso come l’arte. La fotografia, in altre parole, incarna la forma ibrida di un’“arte esatta”, e insieme di una “scienza artistica”, che non ha equivalenti nella storia del pensiero occidentale.
F. Alinovi, La fotografia: l’illusione della realtà
vista = facoltà di vedere / di percepire stimoli visivi attraverso gli organi adibiti a tale funzione / il senso della luce e degli oggetti illuminati.
(definizioni da dizionari della lingua italiana)
Le piante non solo ci riguardano, ormai è evidente la loro imprescindibilità, ma pare dimostrato che ci guardino, ci vedano. E qualcuno all’inizio del Novecento ne aveva materializzato la visione attraverso la fotografia, mostrando in pubblico immagini fatte utilizzando l’epidermide delle foglie come lente di obbiettivo…
Il dibattito sulla neurobotanica e sulla fito-filosofia dei primi anni del XX secolo si era acceso e spento in breve tempo, meglio dire insabbiato dalla comunità scientifica. Francis Darwin (1848-1925) figlio del noto Charles e professore di fisiologia delle piante all’Università di Cambridge, fu il primo a dimostrare scientificamente che le piante erano in grado di percepire, ricordare e avere comportamenti.
Oggi grazie alla divulgazione editoriale e mediatica delle ricerche internazionali di numerosi studiosi (Stefano Mancuso, Frantisek Baluska, Dieter Volkmann e molti altri), abbiamo maggiore accesso alla conoscenza della sensibilità e dell’intelligenza vegetale per innumerevoli aspetti più evolute di quelle animali. Scoprire però gli esperimenti fotografici di Harold Wager, nei quali ci mostra una possibile forma concreta in cui si traduce la visione delle piante, provoca un’indubbia suggestione che un po’ richiama la magia. Harold William Taylor Wager (1862-1929), botanico inglese membro della Royal Society, raccolse e sviluppò le concezioni del collega tedesco Gottlieb Haberlandt, famoso per aver inventato la coltivazione in vitro delle piante. Quest’ultimo, sostenuto da Francis Darwin, nel 1905 dimostrò con fondatezza scientifica che le piante erano in grado di percepire immagini grazie alle cellule dell’epidermide, spesso convesse come lenti e quindi facilmente in grado di convogliarle sullo strato cellulare sottostante. Proprio come fanno gli ocelli, sorta di occhi semplici e primitivi presenti in molti invertebrati. La cuticola agisce come la nostra cornea, l’epidermide come una lente che fa convergere la luce focalizzandola sul mesofillo, lo strato cellulare fotosensibile. Fu così che nel 1908 durante un congresso a Dublino Wager mostrò al pubblico incredulo il frutto dei suoi esperimenti: numerose fotografie prodotte utilizzando le cellule dell’epidermide fogliare. Così documenta il New York Times dell’8 settembre 1908:
“Queste lenti sono così buone e mettono a fuoco la luce così accuratamente, che è possibile fotografare attraverso di loro. Il Professor Wager ne ha realizzate in gran quantità, e ha mostrato le più significative. Tra queste un ritratto di Darwin i cui tratti erano distinti e inequivocabili, e altre di paesaggi e di persone. Persino fotografie a colori, chiaramente e notevolmente definite, come tutte le altre.”
Ed ecco la nostra pianta non più oggetto ma soggetto della pratica fotografica, trasformata da spectrum a operator, ricordando le categorie barthesiane de La camera chiara. A noi resta il ruolo emozionato dello spectator.
Nel 2020, alle soglie del primo, indimenticabile, lockdown, mi ricordai di un piccolo caleidoscopio acquistato su una bancarella, e della sua lente prismatica capace di frammentare e moltiplicare ogni oggetto inquadrato, vicino o lontano, minuscolo o sconfinato. Iniziai con un vaso dipinto, poi incontrai il campanile, poi il gatto, i fiori, la luna, l’alba, il caffè del risveglio… Il gioco della visione, insieme alla natura in cui fortunatamente ero immersa, divenne il mio rifugio, un esorcismo efficace alla paura dell’ignoto e alla solitudine. Nasce così Kaleidos time, diario fotografico, esplorazione di un quotidiano trasfigurato, che perde i riferimenti spazio temporali per aggregarsi in 24 microcosmi, mandala, sfere sospese nel nulla. Non conoscevo ancora le fotografie di Wager, quando le ho scoperte l’emozione è stata intensa, questa corrispondenza di forme l’ho considerata come un dono inatteso, con la sensazione che una foglia mi strizzasse l’occhio in segno d’invisibile alleanza.



