Orientarsi a Meedhoo tra Naturale e Artificiale

di Maria Sara Cirifino

È distogliendo lo sguardo dalle palme all’orizzonte per posarlo un momento sullo schermo del cellulare che mi accorgo che Google Maps sta segnando la mia posizione letteralmente sull’acqua, nel bel mezzo dell’Oceano. È febbraio, fa molto caldo, il clima tropicale e l’umidità alle stelle, non aiutano di certo a mantenere la giusta lucidità mentale. Controllo il cellulare una seconda volta, chiudendo e riaprendo l’applicazione delle mappe. Sono ancora in mezzo al mare. Faccio qualche passo a sinistra, qualche passo a destra, giro su me stessa, ma continuo a risultare in mezzo all’Oceano mentre i miei piedi, al di là di ogni ragionevole dubbio, sono ancorati saldamente a terra. Alzo il cellulare sopra la mia testa, lo scuoto un po’. Nulla. Tuttavia, pensando alla storia di Meedhoo, l’isola maldiviana in cui mi trovo, comincio a capire a cosa potrebbe essere dovuto l’apparente malfunzionamento delle mappe digitali. Osservo il paesaggio che mi circonda. È un ambiente spoglio, ci sono arbusti secchi a terra, grosse strade semi asfaltate su cui corrono bici e motorini, qualche fila di palme lungo la costa; sono lontana dalle case, dai negozi, dal porto. Sembra un sito incompleto, un luogo in costruzione che manca di continuità e armonia con il suo centro abitato. E in un certo senso è proprio così. Capisco di trovarmi su di una porzione di terra costruita artificialmente, un esempio di land reclamation che le mappe digitali fanno, a quanto sembra, fatica a identificare. Non riescono a leggere, a riconoscere, l’artificiale, la porzione di terra su cui sto camminando. Questo mi diverte: come me, anche loro sono un po’ spaesate.  Meedhoo non è certo una grande isola, eppure ad un certo punto della mia perlustrazione, per tornare al centro abitato ho deciso di controllare Maps. Un gesto meccanico, un automatismo che mi ha permesso di notare quel piccolo cortocircuito tecnologico e capirlo. Mentre mi rimetto in cammino penso a questa parte di Oceano “sparita” per la discutibile creazione – considerate le diverse criticità che comporta – di un sito umano.  Penso a come l’artificiale sia spesso considerato in modo troppo approssimativo l’ovvia risposta ai problemi che la Natura “causa” o una strategia per cercare di controllarla. In effetti, il processo di land reclamation è principalmente questo: un ingegno tecnologico nei confronti dell’ambiente, una contrapposizione alla Natura, un vantaggio, un ricavo sociale. Anche se non esiste una definizione universale di tale processo, una delle più comuni si riferisce alla creazione di uno spazio artificiale sottratto alla Natura; una pratica antica, dai diversi significati, ed estremamente frequente, in realtà. Molte città, ad esempio, sono state costruite sconfinando in modo più o meno massiccio nei territori d’acqua circostanti, da San Francisco, che ha edificato il proprio litorale sottraendo spazio alla sua baia, a Città del Messico che sorge sull’antico lago di Texcoco; a Helsinki, il cui centro si erge su di una terra sottratta all’acqua, così come è stato fatto per la costruzione dell’Aeroporto Internazionale del Kansai in Giappone o per l’ampliamento del territorio dell’isola di Meedhoo. I vantaggi di questa risposta artificiale alla Natura paiono molteplici: recupero di terreni ad uso agricolo, costruzione di isole artificiali, restauri di spiagge erose sono solo alcuni casi di utilizzo di land reclamation. Tuttavia, gli impatti ambientali negativi provocati da simili operazioni sono notevoli e possono causare, fra l’altro, la distruzione di ecosistemi. La land reclamation è un’operazione complessa che sposta grosse quantità di roccia, argilla, terra, un’operazione che utilizza cemento, che drena le zone umide sottraendo acqua in luoghi ricchi di biodiversità il cui impoverimento non è accettabile in questa epoca segnata da una grave crisi ambientale. Ma a Meedhoo la sottrazione di terra al mare è un progetto cominciato a seguito del tragico tsunami che ha colpito le Maldive nel 2004.  È, in questo caso, un processo di land reclamation che si propone di contrastare – o perlomeno rallentare – alcune gravi problematiche. L’Artificiale si trasforma così in una risposta necessaria al Naturale anche se si tratta di un’operazione non priva di criticità. Eventi naturali e fattori umani (elementi quasi mai completamente sconnessi tra loro) si sono intrecciati portando a risultati ambigui e contraddittori. Il piano di allargamento terrestre dell’isola avrebbe dovuto rappresentare – secondo l’allora governo maldiviano – una strategia per contrastare l’innalzamento del livello del mare, una soluzione per ospitare la crescente manodopera impegnata nella ricostruzione post tsunami, una manovra vincente per rafforzare il ruolo primario di Meedhoo come centro di pesca grazie ad un ulteriore ampliamento dell’area del porto. Eppure, la società civile ha denunciato la mancanza di coinvolgimento delle istituzioni locali, l’affidamento del piano ad una società marittima olandese e il pericolo per l’ecosistema corallino dell’isola a causa dell’inadeguatezza dei mezzi e della tecnologia impiegati. È difficile esprimere un giudizio sull’operato del governo maldiviano, consapevole del forte rischio di scomparsa delle sue isole a causa dell’innalzamento del livello del mare, ma è opportuno riflettere sulla pericolosità della contrapposizione tra Artificiale e Naturale, sulle contraddizioni e sui pericoli dell’utilizzo del primo termine come risposta al secondo. Il rischio è quello di porre gli esseri umani al di fuori della Natura stessa, mentre siamo, invece, indiscutibilmente parte attiva dell’ambiente in cui viviamo, con cui intrecciamo relazioni, che modelliamo e plasmiamo. Allo stesso modo in cui siamo, a nostra volta, modellati e plasmati da ciò che c’è al di fuori.

Bibliografia

E. Dell’Agnese, S. Malatesta, M. Schmidt di Friedberg, Hazard, Resilience and Development: The Case of
Two Maldivian Islands, in Bollettino della Società Geografica Italiana serie 14, Firenze University Press, 2020.

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